Corriere della Sera, 2 ottobre 2023
Intervista a Tiziano Ferro
Quando gli chiedo come sta, di colpo gli occhi puntano verso il basso e risucchiano, scurendosi, tutta la luce che c’è. Con Tiziano Ferro, avevamo un appuntamento per parlare del suo primo romanzo, La felicità al principio, in uscita domani per Mondadori, ma non si può fingere che nulla sia accaduto, che una decina di giorni fa non abbia annunciato su Instagram che sta divorziando e che, ora, non sia a Milano ma a casa sua a Los Angeles, perché lì ci sono i suoi due figli, che non può portare con lui in Italia. Finiscono 7 anni di amore, di cui 4 di matrimonio, con lui che, sposandosi con il manager di marketing Victor Allen, diceva «ho sempre creduto nel vero amore, unico, solo, imperfetto, assoluto. Niente di meno, mai». E, adesso, questo è uno di quei momenti in cui una star da venti milioni di dischi venduti nel mondo, duecento canzoni in cinque lingue, successi come Xdono, Sere nere, Rosso relativo, può sembrare un giovane uomo come tanti, alle prese coi problemi di tutti.
Anzitutto, Tiziano, come sta?
«Se dicessi bene, mentirei. C’è di peggio, c’è chi non affronta i problemi e fa scelte all’antica trascinando situazioni che possono diventare tossiche non solo per lui, ma per i figli. Io appartengo a una generazione i cui genitori non si sono lasciati per il “bene dei figli”, ma creando in realtà solo scompensi, facendo respirare infelicità ai bambini. Diciamo che sono in una condizione di speranza verso il futuro, ma non posso certo dire che sia un bel periodo».
Le ho incupito lo sguardo. Quanto è stato difficile dare quell’annuncio?
«Affrontare un divorzio non è mai bello, ma il mio è capitato con una tempistica tremenda, la sfiga ha sempre progetti precisi: è una vita che spero di scrivere un romanzo e, ora, la sua pubblicazione si scontra con un cataclisma come questo, che spero non prenda possesso della gioia che devo a me stesso e a chi mi segue. Però, non potevo tenere nascosta la verità: ho sempre vissuto mostrando una sola versione di me stesso, quella vera, e preferisco così piuttosto che inventare scuse e affrontare l’ansia che le cose possano venire fuori senza che le abbia potute spiegare. In questo momento, tuttavia, io che non sono invidioso, ammetto che invidio chi racconta di essersi separato nella pace più assoluta».
Ha scritto che non verrà a promuovere il libro per stare con i suoi bambini. Come mai non può portarli?
«Questa frase ha scatenato gli odiatori seriali e ha dato pane ai cretini, specie considerando che i miei figli erano con me in tour in Italia questa estate. Ora, non poter partire coi bimbi è dovuto non alle leggi italiane, ma a un tecnicismo noioso e fastidioso: avendo un divorzio in corso, non posso lasciare lo Stato della California coi miei figli. Sarei potuto venire da solo, ma avrebbe significato non potermi occupare di loro, che in questo periodo stanno soprattutto con me».
Margherita ha due anni, Andres uno e mezzo, come sono? Come stanno?
«L’altro giorno, è venuta a casa un’amica. Parlavamo del divorzio e mi ha detto: “Vedendo te e i bimbi, ho avuto tutte le risposte, mentre corrono e ballano, vedo luce, gioia, felicità”. In questi giorni, Margherita e Andres sono in fissa con Mamma Maria dei Ricchi e Poveri. Colpa mia eh... Ancora ieri, ho rilanciato quel video per mezz’ora mentre loro ballavano, cantavano, saltavano. Li ho guardati e mi sono commosso: ho pensato che il mio atto di fede nel fatto che la mancanza di conflitto produce felicità sta funzionando. Metterlo in pratica è faticoso perché non è quello che ho visto fare nella vita, mi sono buttato alla cieca a fare una cosa che non conosco, ma mi sono fidato dei dottori. Io e Victor ci siamo rivolti a degli specialisti affinché ci aiutassero coi bambini e la prima e unica cosa che ci hanno detto è stata: teneteli lontani dai conflitti».
Che altro ha pensato guardandoli ballare e cantare?
«Che ridono da mattina a sera, giocano, si rincorrono, sono curiosi, interessati a tutto. Ieri, gli ho anche spiegato come le api fanno il miele ed è stato divertente vedere come loro me lo rispiegavano, usando le poche parole che conoscono. Li tratto come futuri adulti, senza sottovalutarli mai e, ovviamente, con la tenerezza e il senso di presidio che si ha con dei bambini. Vivo a loro disposizione senza dimenticarmi del mio bene. Molti genitori se ne dimenticano, non rendendosi conto che la loro infelicità diventa l’infelicità dei loro figli».
Il protagonista del romanzo, Angelo Galassi, si finge morto e si trova a occuparsi di una bambina che, pur non essendo muta, non parla. Come lei, è un cantante di successo che non ha amato il successo, che ha vissuto l’obesità, l’omofobia, la bulimia, la depressione. Ma nel frontespizio, lei avverte «questa non è la mia storia. L’ha scritta il mio angelo mentre vagava nella galassia dell’insonnia». Lei ha un angelo?
«Grazie a Dio, sì. Se no, non saremmo qui a parlare. I punti in comune col protagonista ci sono e ci sono quelli totalmente diversi, grazie a un po’ di intuito, fortuna, coraggio, agli amici, ai dottori, a una serie di angeli in terra o meno. Scrivere fiction è stato meraviglioso perché, per la prima volta, ho fatto il contrario di quello che ho sempre fatto: ho inventato, invece di raccontare la verità in modo brutale. Io e Galassi siamo incorniciati in un contesto simile, al quale però io ho reagito, mentre lui fugge, si nasconde, fa vincere la paura, non risolve le sue dipendenze né il pessimo rapporto coi genitori e con chi lo ha fatto sentire sbagliato. Per me, lui è tutto quello che avrei potuto essere e che non ho voluto essere. Io, per esempio, non mi concederei mai la possibilità che un amore finito diventi un cattivo incantesimo su di me fino a precludermi ogni altro amore».
Oggi, direbbe ancora, come in suo brano, che «l’amore è una cosa semplice»?
«Semplice non vuol dire facile. Vuol dire che le dinamiche dell’amore sono controllate da pochissime regole, non da milioni. L’amore è talmente istintivo che può iniziare e finire e la fine di un amore fa parte della sua semplicità. Per cui, io nell’amore ci credo ancora. Angelo Galassi no, ma io sì».
E crede ancora anche nell’amore «per sempre»?
«Ci credo così tanto che mi separo. Anche il divorzio fa parte della fede nell’amore. Ho esordito dicendo che non posso dire di stare bene, ma questo non vuol dire che non starò bene in futuro. Se non mi separassi, significherebbe che non do importanza all’amore. Invece, lo tratto come una cosa talmente tanto preziosa che, se non è autentico, se non mi fa bene, non lo voglio. Quanto al “per sempre”, non puoi pensare che l’amore, come l’amicizia, resti lì senza coltivarlo, c’è un mestiere dietro, molto simile a quello dell’artigiano: devi sempre presentarti in bottega, ci sono giorni in cui avrai creatività e giorni in cui non succede nulla, ma devi sempre essere lì a lavorare. L’amore eterno è come l’amicizia eterna: devi fare fatica, solo che l’amore è fatto di dinamiche molto più sottili e molto più fragili».
L’ex di Galassi di cui parlava è un opportunista che approfitta di lui per diventare un rapper famoso, poi sposa una modella e finge la coppia felice pur di avere successo. Chi è nella realtà?
«Nel costruirlo, mi sono divertito, ho sentito il brivido del mestiere di scrittore. In Mondadori, non ci credono che l’ho inventato. Mi dicono: un giorno ce lo dirai chi è».
In effetti, questo Bass Ferper sembra un seguitissimo rapper italiano.
«Ma no, è il cliché dello youtuber, dell’instagrammer che diventa famoso in un mondo nel quale la fama non è necessariamente legata al talento, è un bugiardo che si adagia nella falsità pubblica con grande naturalezza, che abbraccia quello che gli conviene con spontaneità. L’elenco di quelli che gli somigliano sarebbe lungo. Ma nel corrispettivo della mia vita, un ex così non esiste perché io non ho l’istinto autolesionista di amare uno così: per me, l’amore deve favorire chi sei, non annullarti».
Lei hai mai pensato di sparire, fingersi morto?
«La cosa aberrante per me non è tanto che il mio protagonista si finga morto ma che faccia una cosa che è contro la natura dell’essere umano: rimane in vita, ma si toglie la possibilità di esistere e quindi di fare esperienze e di evolversi. Suicidarsi è orrendo, ma rimanere vivo a guardare la propria morte, in un certo senso, è anche peggio».
Oltre all’angelo, lei conosce anche «la galassia dell’insonnia»?
«Ho scritto di corsa, ho iniziato e non ho mai smesso, in trenta giorni durante i quali, in effetti, la notte non riuscivo a dormire. È successo prima dell’arrivo di Margherita, un’attesa in cui l’insonnia non era tanto legata a paura o paranoia, ma alla curiosità di scoprire come fosse questa bimba. Ho fatto il gioco di immaginarla e l’ho fatta diventare la Sophia del libro. I miei amici non credono che abbia scritto prima di conoscerla: mutismo a parte, l’ho beccata al 400 per cento».
Al 400 per cento in che cosa?
«Margherita non sta zitta un minuto ma, come Sophia è indipendente, ha gusti delineati, ama la musica da morire, sceglie lei i suoi vestiti e non riesco a farle infilare dei pantaloni neanche se la lego al letto, le piace colorare e lo fa con una logica, come quando Sophia dipinge una tazza, con una pazienza innaturale per una bimba. Ha capacità di ascolto, non fa i capricci, se si sbuccia un ginocchio non piange, è una resiliente. Poi, magari, piange per cose dell’anima. E come Sophia, ha un senso di protezione verso di me – per esempio, se lei mangia, devo mangiare anche io – tratta il fratellino come un lattante, anche se ha solo quattro mesi meno di lei. Gli dice cucciolo e lui glielo lascia fare, è completamente compensatorio, lascia essere lei la star, gli piace fare da spettatore a una sorella così brillante, così intrattenitrice».
E come pensa di essere riuscito a indovinarla così bene?
«Non ne ho idea. In questi giorni, registro l’audio libro ed è la prima volta che rileggo le pagine a distanza di tempo e ce ne sono alcune che, non solo non ricordo di aver scritto, ma proprio mi chiedo: ma come mi è venuta ‘sta cosa? È stato un flusso di coscienza, ricordo l’incapacità di fermarmi. Dopo, l’editor mi ha aiutato a limare, a riempire buchi che non avevo contemplato, per esempio, mi ha chiesto di spiegare con quali soldi Angelo viveva, dato che era tecnicamente morto».
La paternità, nel libro, si rivela terapeutica. Per lei lo è stata in qualche modo?
«Vedere i figli come terapia è una trappola. Sarà che io sono arrivato tardi alla paternità, ma ci sono arrivato concependo il padre come una figura istituzionale. E sono convinto che i genitori non debbano essere i confidenti o gli amici dei figli ma “curatori” a tempo pieno: devono mettersi a loro disposizione, assicurarsi di stare al massimo delle proprie possibilità, e a volte, come può capitare durante una separazione, fare un passo indietro rispetto al loro egoismo, evitando di coinvolgerli nei dissidi degli adulti».
Da romanziere, lei rompe un tabù molto italiano: scrive che non è obbligatorio amare i propri genitori, perché sono loro che avrebbero dovuto insegnarci ad amare e amarli. Lei come insegna l’amore ai suoi bimbi?
«Io penso che se a un bambino non dico che gli voglio bene, se non lo abbraccio, non gli basterà l’intuizione per capire che lo amo. I bambini possono sentirsi non amati anche se li amiamo, invece, per me, dimostrare l’amore è fondamentale. Invece, molti della mia generazione hanno avuto padri e madri incapaci di farli sentire amati e quindi sono cresciuti poco avvezzi ai codici dell’amore. Il mio protagonista si sente colpevole dell’incapacità di amare soprattutto sua madre, ma questo senso di colpa va analizzato col punto di vista del bimbo cresciuto, cioè del figlio di due genitori che hanno fallito nell’insegnargli ad amare. Angelo, a un certo punto, dirà a sua madre: se non so stare accanto a te è perché non me lo hai insegnato, ma non ce l’ho con te, perché tu per prima non hai visto amore nella tua famiglia, nonna non c’era per te...».
A proposito del male che facciamo e ci facciamo, questa è una storia che racconta anche quanto siamo affezionati al dolore, quanto ci piace scaricare il rancore sugli altri.
«Ho usato la fiction per raccontare argomenti che mi riguardano, anche se non ho vissuto certe cose in modo così esasperato. Mia madre non è la madre di Angelo Galassi, però come tanti genitori cresciuti dopo la guerra è convinta che il dolore nobilita l’uomo e che la felicità non è dignitosa. Angelo, che pure non riesce a combattere il dolore come se l’avesse nel Dna, combatte questo preconcetto e di sua madre dice, in modo sarcastico: fosse mai che questa donna si liberasse dai suoi fardelli e corresse il rischio di esser felice... Ah che tragedia... perché, se sei felice, come fai a lamentarti tutto il giorno e a buttare addosso agli altri tanti rancori e tanta infelicità? E come fai, poi, a controllare i tuoi familiari attraverso il senso di colpa?».
Lei si è poi operato alle corde vocali?
«No. Poco prima di iniziare il tour, ho sentito un problema alla voce. In 25 anni, non mi era mai successo, ma lì ne ero certo. Ho detto: qualcosa non va. Sono andato dal medico e lo sapevo, lo sapevo, lo sapevo: c’era un polipo alle corde vocali. Sapevo che c’era qualcosa perché non riuscivo a essere comodo nelle basse, che per me sono la cosa più facile del mondo. Mi hanno detto che non sarebbe regredito senza un’operazione. Ho scelto di continuare il tour, fare logopedia e di non dire nulla: non mi piace accaparrare benevolenza facendo il piagnone. Però, salivo sul palco con angoscia, col rischio che la voce mancasse di colpo, anche perché, più la sforzi, peggio è. Finito il tour, dopo due mesi di riposo forzato, sono tornato dai medici e il polipo era regredito al punto che non c’era più niente da operare. Sparito. Un mistero».
E ci vede della psicosomatica in questo mistero?
«Al cento per cento. Credo che corpo e testa siano profondamente connessi e la voce esprime quello che vuoi, quello che non vuoi e tace quello che non sai dire. Quello è stato un tour complesso anche perché ero nel mezzo di ciò che ha portato al divorzio. L’ho affrontato con una spada nel cuore. Di sicuro, vivevo l’incapacità di esprimere qualcosa e insieme il bisogno di farlo. Manco a farlo apposta, nel momento in cui questo qualcosa ha preso una forma, seppure brutta e spiacevole, nel momento in cui ho trovato la voce per uscire da quel limbo doloroso, il polipo è sparito».
Se dovesse spiegare, in sintesi, il suo libro che cosa direbbe?
«Che parla di speranze e di seconde possibilità, addirittura di un “morto” che può riuscire a tornare in vita. Parla di persone che cercano la propria voce e di sogni che si realizzano. Parla del fatto che la felicità non ha codici. Parla di difetti, fragilità e cicatrici che ci rendono unici e non vanno rifiutati perché celano bellezza».
Che cosa significa il titolo «La felicità al principio»?
«Ha una lettura doppia o tripla. Può essere letto come “la felicità che sta iniziando” o fa pensare al “principio della felicità”, al fatto che ognuno di noi crea il suo principio perché la sua felicità non deve assomigliare a quella degli altri ma solo a quello che rende contento lui. E ancora: a me piace pensare alla “felicità come principio”, come spirito con il quale vivere. La ricerca della felicità è sempre il mio obiettivo: al principio, c’è la felicità; quello che mi muove è la felicità. Qualunque cosa faccio, e mai come ora posso dirlo, la faccio per cercare di stare bene ed essere felice».