Domenicale, 1 ottobre 2023
Ricolfi stroncato sul merito
Per Luca Ricolfi, l’Italia ha tradito l’articolo 34 della Costituzione perché non ha consentito ai «capaci e meritevoli» (CM, come li chiama) di «raggiungere i gradi più alti degli studi». Per dimostrarlo tenta (tra gli altri) tre esercizi: 1) persuaderci che la lode al merito può convivere con una critica alla meritocrazia; 2) che Don Lorenzo Milani, se ben capito, non era contrario ad una scuola del merito; 3) che la scuola e la società italiana tutta hanno oggi bisogno della “rivoluzione del merito”, in particolare di quella alla quale lui sta lavorando con la Fondazione Hume. Nessuno dei tre esercizi è convincente. Il punto 1 è quello più confuso, anche perché sulla scia di Hayek dà una definizione solo mercantile della meritocrazia e perché la scuola che ha in mente con la sua riforma è esattamente una scuola del merito e meritocratica.
Il suo ragionamento riparte da una famosa frase di Calamandrei: «Il problema fondamentale della democrazia: la formazione della classe dirigente» (p. 21). Questa classe «non deve essere classe ereditaria, chiusa, una oligarchia, una chiesa, un clero, un ordine. No. Deve essere aperta e sempre rinnovata» (p. 14). Se continuiamo la lettura ci accorgiamo che l’idea di democrazia di Ricolfi è una oligarchia dei migliori – ogni oligarchia ambisce ad essere una aristocrazia. Ciò che è tipico nella aristocrazia di Ricolfi è solo la natura dei migliori: il merito. È infatti convinto che se le varie élite che guidano la società fossero composte dai meritevoli (e i capaci: due concetti diversi, presi invece come sinonimi o comunque senza spiegarci le differenze) questa aristocrazia sarebbe buona e giusta, diversa da quelle cattive dove i migliori sono definiti dal sangue, dal sacro, dalla forza. Una visione davvero bizzarra della democrazia, una chimerica democrazia aristocratica: chi ci dice che le desiderate élite dei migliori genereranno una buona vita sociale? Infatti non appena usciamo dai soliti esempi di chirurghi, piloti di aereo o dal meritocratico mondo dello sport, il governo basato sui migliori diventa equivoco se non terrificante: chi sarebbero i migliori nelle élite politiche? E nelle associazioni culturali? Quali tra i volontari, i sacerdoti e le suore? Il punto decisivo del merito, e per questo non presente nel libro, è la sua natura plurale, perché le persone sono diversamente meritevoli, e non tutti i meriti sono coerenti tra di essi, misurabili e ordinabili in una scala per selezionare i migliori – questo è anche il centro della critica radicale di Don Milani al merito. Anche se Ricolfi non può saperlo, perché non è un economista, la religione del merito è nata nelle grandi business school e nelle società di consulenza globale, dove i libri di Hayek e Sandel non entrano. Queste agenzie globali d’affari hanno ridotto il merito a poca cosa e quindi a cosa semplice (cioè gli obiettivi aziendali), per poterlo misurare, premiare e mettere a capo delle aziende. Un mondo semplice, come l’alveare immaginato dal moralista cattolico Fénelon dove «il merito è l’unico percorso che porta alle prime posizioni» (Les Abeilles). Data poi la grande forza dei capitali, negli ultimi venti anni il merito dal business è emigrato in politica, nella sanità e infine nella scuola dove è arrivato grazie ai consulenti non ai pedagogisti. Una migrazione che ha portato con sé un problema enorme: in questi ambiti non-economici i meriti sono faccende complesse, non si lasciano docilmente misurare e ordinare, e quando facciamo rientrare questi meriti complicati dentro il letto di procuste dei consulenti commettiamo errori gravi, perché catturiamo le dimensioni più semplici e banali del merito, e spiazziamo e distruggiamo le dimensioni non facilmente osservabili. Il merito è una grande scorciatoia cognitiva, che gli uomini (maschi) hanno sempre amato per auto-giustificare e rafforzare le proprie posizioni di potere. Don Milani, esperto di Bibbia lo sapeva bene. Il libro di Giobbe, Agostino contro Pelagio (tema caro a John Rawls), poi Lutero contro i teologi della controriforma, hanno mostrato la insidie del merito, usato troppo spesso per condannare i poveri in quanto colpevoli della loro povertà.
Ricolfi, in verità, è andato anche oltre l’articolo 34 (o prima). Durante i lavori dell’Assemblea Costituente, l’onorevole torinese Osvaldo Colonnetti aveva proposto un emendamento dell’art. 34: «Solo i capaci e i meritevoli…». L’Assemblea non approvò quel “solo”.
L’articolo 34 è espressione di una cultura gerarchica che la storia repubblicana ha superato con i moltissimi insegnanti di sostegno che hanno consentito di «raggiungere i gradi più alti» a molti più studenti di quelli contenuti nell’insieme MC – è questa la «borsa di studio» più importante che Ricolfi non vede.
Lascio a Victor Hugo l’ultima parola: «Sia detto di sfuggita, il successo è una cosa piuttosto brutta; la sua falsa somiglianza col merito inganna gli uomini» (I Miserabili).
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Luca Ricolfi
La rivoluzione del merito
Rizzoli, pagg. 216, € 18