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 2023  ottobre 01 Domenica calendario

Gadda al ristorante

[Il testo che riproduciamo qui a fianco è uno stralcio dal volume Al ristorante di Carlo Emilia Gadda (con una nota di Giulio Ungarelli), in uscita per le Edizioni Henry Beyle. Il testo, come ricorda lo stesso Ungarelli, che fu curatore di Gadda al microfono. L’ingegnere e la Rai. 1950-1955 (Nuova Eri, Torino 1993), in un pregevole articolo apparso su «la Repubblica» (7 agosto 1992), è uno degli esempi degli anni “radiofonici” di Gadda, che fu, per la radio, autore di rubriche, testi, ritratti, satire sul vivere sociale.

Al ristorante, in particolare, fu letto il 2 ottobre 1955 e poi divenne articolo apparso sul «Radiocorriere» nel mese successivo (anno XXXII, n. 46, 13-19 novembre 1955).

Le Edizioni Henry Beyle di Vincenzo Campo Sei immagini applicate a mano mandano in libreria il volume in diverse versioni. Nella versione cartonata (con Tela Cialux) la tiratura di 100 copie con sei immagini di menù storici applicate a mano (pagg. 56, € 45), su Carta Tatami con Sovraccopertina carta Tela- Giappone e caratteri Baskerville corpo 11 (formato cm 15 x 15); nella edizione su carta Tatami con sovraccopertina su carta Favini, la tiratura è di 500 copie (€ 28). Al ristorante (nella edizione del «Radiocorriere» titolato un po’ troppo da manuale delle buone maniere, «Come stare a tavola»), rinvia, scrive Ungarelli, «non tanto alle tavolate romane dei «fasti» radiofonici, quanto agli appetiti di Don Gonzalo, mostruosamente ingigantiti dall’immaginazione degli indigeni di Lukones, o, meglio ancora, a un «anticipo» rabelaisiano già contenuto in una lettera di Gadda del 1928: «Addio monti di spaghetti sorgenti dall’acque salsose

della pommarola...»].


Camerieri inguantati sono a scodinzolare tutt’attorno gli schienali delle seggiole, o si inscrivono tra i neri signori e i decolletés delle dame color pervinca; si curvano sulla tavola presentando la portata, e accuratamente servendo.

Ma i due professori non c’è probabilità che la smettano di polemizzare, di sofisticare, di controbattere l’uno la opinione dell’altro: fra la noia di tutti. L’uno sostiene che si deve mangiare tacendo, l’altro che si deve parlare mangiando: « a bocca piena? » « no, sì, già,a bocca vuota »: «ma allora lei non mangia più... e semina il disordine e la confusione tra l’andirivieni del servizio... ». L’uno dà la palma al silenzio, al diligente lavoro dei molari, alla tacita deglutizione dei gnocchi adeguatamente lubrificati in butirro, alla muta eccitazione delle ghiandole insalivatrici.

Tutti i commensali, secondo lui, dovrebbero far propria la pertinace disciplina dei ruminanti, del bove: masticare zitti zitti, con occhioni estromessi ma cervello introvertito: quegli occhioni che non dicon nulla, ma esprimono la preoccupazione d’aver mandato giù il non salubre ossicino o la insaluberrima resca. « Attenti alla resca! » è il suo motto.

L’altro vorrebbe che « gli spiriti » degli attavolati il fascino e il brio delle stupende signore, incrociassero le rispettive armi, impegnassero un unico gioco, accendessero la gran fiamma della cordialità conviviale. La tavola, e la zona dei volti, tutto uno scoppiettare di motti, di lampeggiamenti fascinatori. La tavola un campo di battaglia, l’elegante campo di una intelligente battaglia: uno schermagliare di sottili intelletti, un’accòlita di rari pezzi grossi, una tornata accademica di lingue nobilmente favellanti. L’assaporante lingua, per lui, è una linguaccia: un organo bestiale che, usato per il cibo anziché per la favola, ci degrada alla condizione delle bestie. La lingua motteggiante, guizzante, è invece la fiamma che ci riporta verso la sfera del fuoco, verso la mobile sfera del nostro ardore: cioè del nostro ardire, del nostro intendere, del puro nostro vivere: I gnocchi! le polpette! Che volgarità! Il cibo secondo lo spirito deve disporre al meglio, col suo profumo un tantino platonico, la parte migliore del nostro essere, cioè la sola che sia degna di venir considerata: deve ottenere partita vinta, comunque, contro il cibo che seduce la carne, ossia la lingua, il palato e lo stomaco. A Platone la palma sulle scaloppine!

Allo spirito è consentita la nobile voracità dell’apprendere, alla gola è inibita la voracità turpe del deglutire.

Per poco i due teologi non si accapigliano: uno è talmente calvo che non sarebbe fair play, non sarebbe gioco leale da parte sua il prendere l’avversario per i capelli. Entrambi si astengono dal grattarsi la calva palla del cranio (l’epicurèo) o il carbonioso e cresputo capillizio (il platonico): e di ciò li lodo: ché il grattarsi la testa a tavola, svincolando squame di forfora nell’altrui minestra o pietanza, è pratica inelegante, nell’Ottocento, anzi, si diceva schifosa. La signora Dirce, biondissima fascinatrice di cuori tra le cannonate della polemica e le conseguenti more del servizio che va rotolando verso le classiche forme deldisservizio, ha estratto il piumino dal marsupio della trousse e si studia di dealbare il nasetto, resosi un tantino più rubizzo, forse, di quanto sarebbe desiderabile, e da lei e da noi.

All’udire il tuono delle severe opinioni maritali – (poiché il polemista platonizzante è suo marito) – all’udirle prolungarsi al di là d’ogni pazienza e speranza degli attavolati rimminchioniti, ella profitta per far seguire alla raggiunta e perfezionata imbiancatura dell’organo del fiuto alcuni maestri colpi di pèttine inferti in parrucca. Dalle sue chiome d’oro si libera per tal modo un pulviscolo d’oro che un impreveduto riscontro, detto volgarmente spìffero, conduce a indorare le fragole del vicino, con la delicatezza silente con cui il flauto, detto volgarmente pìffero, di Ermes guidatore di greggi, conduce le più delicate anime a depositarsi ai campi elisi. Il vicino è un terzo professore: è provveduto di lenti: ma «soffre di denti». Lo zabaglione gelato che rinserra le fragole gli si sdilinquisce nel mal di denti, mentre la pioggia d’oro le investe. Il professore non avverte il fenomeno: ha preso le parti del microcosmo contro quelle del macrocosmo sostenute da un commentatore di Goethe che gli siede quasi dirimpetto. (...)

Dall’altra parte, voglio dire dall’altro lato della signora, c’è un critico. Non si capisce che cosa critichi, perché dice «io sono un sincretista »: parla con la bocca piena e dà quindi ragione a entrambi i due tonanti avversari del parlare e del mangiare; da vero ed autentico sincretinista quale si professa.

Continua a fabulare di «trasposizione » e di «trasfigurazione in termini poetici», perché la sua, a sentirlo, è una critica «puntuale»,il che significa una cicalata che dà il cerchio alla testa a tutte le bionde o nere testoline tristemente ammutolite nei dintorni, coi poveri occhi (per solito così splendidi!) chini e compunti sulla pietanzuzza.

Il sincretino va nervosamente spilluzzicando un chicco sì un chicco no da due grappoloni dorati che stringono un gigantesco ananasso in centro tavola, lasciando in quel trofeo di Vertunno dei vuoti, dei neri, che ricordano ogni incisivo mancante e il congruente fòrnice in una bocca salivosa poco sovvenuta dalle cure dello stomatologo. Il capo cameriere bolognese lo sguarda in cagnesco e strizza i denti e poi mormora nonostante i guanti bianchi: « Che Dio ti stramaledica, lascia stare quel grappol d’uva che poi non è più buono per un’altra volta ». Il critico parla e parla: e a poco a poco, e non impedito dalla bocca piena, supera il cannoneggiamento languente dei due teologi del mangiare e del tacere.

Partito a lancia in resta contro uno scrittore «barocco», «Sì, barocco!» urla, e tra le ultime stramaledizioni del chef, butta là lungo disteso sulla tovaglia bianca, il calice di vin rosso che gli era stato così cautelosamente servito da mano inguantata di fil bianco, e ch’era gocciolato così nobilmente dal collo di antica bottiglia, incravattata di bianco tovagliolo (a ritenere la stilla!). Il critico non beve se non acqua: il calice era colmo. Egli non si riscalda col vino, ma con la sua stessa voce, come il 95 per cento degli oratori.