il Giornale, 1 ottobre 2023
La prima donna nella carrozzeria Ferrari
La Signora in Rosso non poteva che essere di Maranello ed avere una storia da film. La conoscono tutti come Lady F40, e basterebbe questo per agitare i cuori dei ferraristi. Ma Monica Zanetti ha qualcosa in più: la simpatia emiliana e quel sogno che aveva da piccola. E che l’ha fatta diventare la prima donna a lavorare nella carrozzeria della Ferrari: «Nella mia famiglia tutti lavoravano per il Commendatore, in casa girava gente importante. A forza di sentir parlare di vittorie, di piloti, di auto, mi si è scatenata la passione. Avrei fatto di tutto per andare a lavorare lì». Sono stati, alla fine, 27 anni a casa del Drake, ed è per questo che dopo aver ricevuto l’Helene Award a Las Vegas come donna pioniera delle 4 ruote, ha avuto il 19 agosto l’onore di entrare nella Hall of Fame di Concorso Italiano a Monterey: «Ancora non ci credo: è come diventare un star di Hollywood». Com’è cominciata questa storia? «Dalla scuola Ipsia creata dal Commendatore, venuto in un paese di contadini per far capire cosa fosse un motore o un cambio. Entrai nel 1977 e c’erano altre donne. Però loro son finite in tappezzeria, finizione e alcune in ufficio». Mentre lei «Io il 1° febbraio 1979 vengo assunta e speravo di entrare in meccanica, ma si era liberato un posto in carrozzeria e ho accettato al volo. Facevamo 8-9 macchine al giorno: si lavorava sul venduto e sul momento». Com’era Enzo Ferrari? «Per me era un eroe. La mattina, mentre noi ci accalcavamo al marcatempo, arrivava con il suo 131 grigio, si fermava e ci salutava. Voleva bene ai suoi dipendenti». Era un duro? «Dicevano, ma io non ho mai avuto problemi. Anzi, una volta sono finita nel suo ufficio, con un tranello dei dirigenti. Perché se lo avessi saputo non sarei mai andata: ero troppo in soggezione». E invece? «Invece ero lì, seduta davanti a lui che mi faceva domande. Non c’entrava il fatto che ero una donna, voleva sapere se fossi una Donna Ferrari. A un certo punto ha fatto una cosa strana». Quale? «Si è tolto gli occhiali scuri e ha chiesto quelli chiari. Mi hanno poi spiegato che quando faceva così era per dare la massima attenzione a chi aveva davanti». Com’è finita? «Mi ha spronato a seguire la mia passione, poi mi ha chiesto se avessi voluto qualcosa. Con un po’ di faccia tosta, ho buttato lì che volevo andare al Gp di Monza. I dirigenti sono un po’ sbiancati. Ma poi mi hanno mandato». Arriviamo alla mitica F40. «Era luglio 1987: Sergio Borsari chiama me e altri tre colleghi in ufficio, e di solito essere convocati lì voleva dire guai. Invece ci spiega: il Commendatore vuole un modello che ricordi i primi 40 anni e che sia una stradale. Ne faremo solo 150 modelli, vi prendiamo in prestito: disse». Una bella responsabilità. «Io, tra l’altro, sarei stata a breve la prima donna a capo di un reparto, quello delle porte in cui mi ero specializzata. Ero tentata di rinunciare, poi mi sono fatta spiegare cosa fossero kevlar, carbonio e resina e alla fine ho accettato». Quante auto hanno avuto la sua impronta? «Oltre 200, fino a quando nell’88 è morto il Commendatore. Le prime 50 avevano i finestrini in plexi, si andava di gran silicone. Col caldo che faceva». Chi ricorda di più della sua vita in Ferrari? «Sono stata fortunata: ho lavorato con Sergio Scaglietti che era già all’apice. E poi Roberto Nosetto, il grande direttore sportivo che Ferrari difese come mai nessuno dalle critiche. E ancora Franco Gozzi e Dino, il figlio del Commendatore». E tra i piloti? «Amici come Scheckter, Arnoux e Martini, che nel 2019, quando ho aperto la mia Scuderia Belle Epoque, mi hanno dato le loro vecchie F1 da restaurare. Poi i due che sono nel mio cuore». Ovvero? «Gilles Villeneuve mi dava sempre i figli Melanie e Jacques da tenere mentre faceva le cose importanti in sede. E poi Michael». Com’era ai tempi Schumacher? «Una persona eccezionale: con lui giocavo spesso a tennis. Un giorno mi ha regalato il suo sottocasco: l’ho voluto tenere così com’era, non l’ho mai più lavato». Com’è finita con la Ferrari? «Nel 2001 Todt mi ha chiesto di andare in Maserati per un nuovo progetto. Però sono riuscita a tenere il cartellino del Cavallino fino al 2006, quando sono uscita. La F1? Ogni tanto mi chiamano per fare assistenza. Recentemente Liberty Media ci ha chiesto di aiutarli a Monza». E allora, perché, vittoria di Singapore a parte, la Ferrari è in difficoltà? «Quando c’ero io, a Maranello tra il reparto corse e il nostro non c’era differenza. Così voleva il Commendatore, anche quando sono andati in via Ascari. Il paese stesso era una famiglia, mentre adesso c’è più distacco. Ricreare un team, coinvolgere tutta l’officina, potrebbe servire: nelle corse ci vogliono ingegneri e piloti, ma senza gruppo non si vince».