La Stampa, 1 ottobre 2023
I disegni di Italo
Villa Meridiana è un’isola, un’enclave vissuta dai sanremesi quasi come una bizzarria estranea all’anima profonda della città. I Calvino sono molto diversi dalla vecchia borghesia cittadina, così ben descritta nella Speculazione edilizia (romanzo di Italo Calvino del 1963, ndr): «Conservatrice, onesta, parsimoniosa, paga del poco, senza slanci, senza fantasia, un po’ gretta, che da mezzo secolo vedeva intorno cambiamenti cui non riusciva a tener testa». In città Mario viene vissuto come un tipo un po’ ispido, burbero, diretto, di quelli che non si lasciano omologare nelle paludi della mediocrità. Gira sempre con dei cappellacci flosci, il casco coloniale d’estate, gli stivali e la cartucciera alla vita. Troppo sapiente, troppo sicuro delle sue conoscenze, del suo attivismo. Quel suo insistere sulle nuove culture, sull’importanza delle ferrovie e dei trasporti, suona come un’implicita condanna dell’inerzia collettiva.
Ed eccolo, il piccolo Italo tornato in patria, nelle fotografie che lo ritraggono sempre un po’ corrucciato ai bagni Morgana con il suo costumino di lana, a cavalcioni di una pecora o in passeggiata con la madre ai giardini di corso Imperatrice, schermato da timidi sorrisi nelle foto di gruppo famigliare, protettivo con il fratello minore. Frequenta l’asilo infantile del St George College, poi le scuole valdesi, infine dal 1934 il liceo ginnasio G. D. Cassini, dove consegue la maturità nel 1941 senza brillare. È un ragazzo introverso, disciplinato, obbediente, di poche parole, dallo sguardo un po’ sognante, perso nelle sue fantasticherie. Ha la fronte spaziosa del padre e i capelli tirati all’indietro, all’umberta, come allora si usava. A farlo sentire un diverso è l’educazione ostentatamente anticonformista che i genitori gli impongono con il loro strenuo anticlericalismo. I Calvino chiedono di esentare il figlio dalle lezioni di religione, e lui impara sin da piccolo che cosa vuol dire non soltanto avere un’idea diversa dagli altri, ma essere percepito come uno che sta fuori dal branco, che si esclude da solo. Significa «sopportare sospetti, discriminazioni, scherni da parte di superiori e compagni perché non si seguono le idee ufficiali: ero segnato a dito perché non andavo a messa, non facevo la cresima come i miei compagni e sui documenti pubblici, dove era indicata la religione, i miei genitori scrivevano: nessuna». Come motivare il suo vagare per i corridoi durante l’ora di religione? Dire che lui era ateo gli sembrava una spiegazione anche troppo impegnativa e superba. Se non sei cattolico, sarai ebreo, protestante, valdese, qualcosa dovrai pur essere, gli dicevano i compagni. Di qui una conclusione che oggi suonerebbe politicamente scorretta: «Un’educazione assolutamente laica può essere molto più repressiva di quella cattolica».
Fino ai sedici anni porta i calzoni alla zuava. La sua è un’infanzia e poi un’adolescenza solitaria che nella sua stessa descrizione non ha nulla di drammatico: «Vivevo in un mondo agiato, sereno, avevo un’immagine del mondo variegata e ricca di sfumature contrastanti, ma non la coscienza di conflitti accaniti». Non possiede la manualità paterna, gli sport non lo interessano, la vita di relazione, con i suoi riti ipocriti, gli appare insulsa. Gli viene spontaneo trasformare le cose in segni astratti, carichi di un significato simbolico, come scrive in un racconto del 1946, Amore lontano da casa: «Ogni cosa per me era uno strano simbolo, gli intervalli dei datteri appesi ai ciuffi dei gambi, le braccia deformi dei cereus, gli strani segni nella ghiaia dei viali. Poi c’erano i grandi, che avevano il compito di trattare con le cose, con le cose vere. Io non dovevo far altro che scoprire nuovi simboli, nuovi significati. Così sono rimasto tutta la vita, mi muovo ancora in un castello di significati, non di cose». A poco più di vent’anni non sa di avere la vocazione del semiologo.
Ha un singolare talento per il disegno, un tratto svelto ed essenziale, caricaturale, con cui coglie al volo un tic, un carattere. A undici anni la madre lo iscrive a un corso di disegno per corrispondenza, dove è l’allievo più piccolo, ma lui abbandona quando si accorge di non riuscire a elaborare uno stile tutto suo. Amico di famiglia è un bravissimo pittore e illustratore per l’infanzia, Antonio Rubino, che in villa disegna spesso per il bambino che se ne incanta. Non gioca a niente, preferisce le belle scatole di matite Staedtler. Pensa che se lui ha un’anima, come dicono, ce l’hanno anche i cosiddetti oggetti inanimati.
Prima ancora di impratichirsi con le parole, sono le immagini il primo e vero motore della sua fantasia combinatoria. Come racconta nelle Lezioni americane, è ancora un bambino che non sa leggere quando preleva dai fumetti e dai cartoons le figure che più lo colpiscono e le ricombina a suo piacimento in storie tutte sue, in una sorta di libera fissione che diventa «una scuola di fabulazione, di stilizzazione, di composizione dell’immagine». Le immagini possiedono una loro logica interna che si impone, che detta le storie. Vengono prima del racconto, ne costituiscono l’innesco, mettono in moto la macchina del racconto, la fanno girare a pieno ritmo. In lui, l’occhio è l’organo privilegiato, il guardare l’atto fondativo da cui discende a cascata tutto il resto. Il disegno cerca di riprodurre, nella sua immediatezza, l’emozione della scoperta, la ricostruzione delle linee segrete, delle geometrie che governano le impalcature. È solo in quel momento che la parola interverrà per spiegare, interpretare, tradurre in un altro linguaggio.
È un’operazione complessa e intellettualmente costosa. Nella sua piena maturità, Calvino chiederà con sempre maggiore frequenza alla parola di interrogarsi sui procedimenti percettivi, e in primo luogo il guardare. Insegnare a guardare, cioè a stare nel mondo, resta uno dei suoi precetti più convinti e più noti. Quando arriva all’età del signor Palomar, e sostiene di non saper riconoscere gli uccelli dal loro canto, ammette che c’è un sapere che si può trasmettere solo oralmente, una volta perduto nessun libro te lo può insegnare. A quel punto la vita diventa «un seguito di occasioni mancate». Resta un fatto inconfutabile: «Esiste una felicità del dipingere, ma una felicità dello scrivere non esiste». La matita, il pennello sono infinitamente più leggeri della penna. Il Calvino che disegna o fa disegnare i suoi personaggi (la suor Teodolinda del Cavaliere inesistente, che vorrebbe «istoriare ogni pagina con duelli e battaglie») può avvicinarsi a una provvisoria felicità. —