Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  ottobre 01 Domenica calendario

Intervista a Giuliano Amato

«Oggi si accoglie chi è perseguitato da un regime e si respinge chi è perseguitato dalla fame: questo è inammissibile sul piano dei diritti umani. L’Europa deve uscire da un grande equivoco e riconoscere finalmente lo status di rifugiato economico».Giuliano Amato ha celebrato nei giorni scorsi il Napolitano europeista e oggi torna su un’amicizia che ha attraversato la storia d’Italia, l’uno riflesso nelle posizioni dell’altro, in un gioco di specchi che mette al centro la politica e il riformismo. E in questo sodalizio entrano i grandi temi di attualità, la difficile costruzione dell’Europa, l’immobilismo degli Stati nazionali davanti ai movimenti migratori, l’incertezza della destra italiana giunta al bivio tra partito conservatore e sovranismo. «Il recente pacchetto di provvedimenti sui migranti? Sono misure che servono solo a dimostrare l’esistenza di un problema, non a risolverlo. Il sociologo Niklas Luhmann l’ha spiegato bene: quando il potere sa di non essere in grado di trovare soluzioni alza il decibel del linguaggio politico per dare a tutti l’impressione di venirne a capo.Questo mi sembra uno di quei casi».Partiamo dalla sua amicizia con Giorgio Napolitano. Le vostre vite si sono incrociate in diversi passaggi tempestosi della storia d’Italia, quasi riflettendosi l’una nell’altra.«Questo è vero, nel senso che entrambi abbiamo creduto in una sinistra riformista di governo. Per me era relativamente più facile, perché venivo da un partito che non aveva lo stesso enorme problema del Pci, ossia il legame di ferro con l’Urss. In questo Giorgio è stato gigantesco, insieme a tutti quei comunisti che hanno avuto la lungimiranza e la costanza di traghettare il patrimonio umano di quel partito entro i saldi binari della democrazia e dell’Europa».Un percorso accidentato, come è stato ricordato in questi giorni.L’ossequio all’Urss, dopo l’invasione di Budapest nell’ottobre 1956, rappresentò una battuta d’arresto.«Sì, ma quasi settant’anni dopo mi chiedo: ebbero davvero torto coloro che pensarono che far disperdere quel patrimonio umano sarebbe stato un errore? Io escludo che Giorgio fosse personalmente sensibile al mito di Mosca, che aveva anche aspetti grotteschi, ma è un fatto che fosse una componente identitaria a lungo essenziale per preservare l’unità».È una riflessione che può sorprendere, vista la sua storia.«Pensi che io mi iscrissi al Psi dopo la tragedia di Budapest, proprio quando Nenni ruppe il patto di unità d’azione con i comunisti. E per una vita sono stato legato ad Antonio Giolitti, figura simbolo del dissenso.Ma oggi ripenso alla scelta difficile di chi rimase come Giorgio: io resto, ma farò tutto quello di cui sono capace per radicare il mio partito nel sistema democratico italiano.Un’impresa ardua e coraggiosa».Un cammino contrastato che riguardò anche l’Europa.«Non fu facile liberare il Pci dalle semplificazioni ideologiche con cui nel 1957 liquidava il mercato comune come Europa dei monopoli: valeva il principio per cui non bisognava collaborare con l’Europa dei padroni, gli stessi che si voleva spossessare nella previsione di unasocietà migliore. Per Giorgio non si trattò di passare dall’altra parte ma di capire che, più di Marx, aveva ragione Eduard Bernstein: conta la trasformazione, conta il movimento, contano i passi che si compiono verso qualcosa che ancora non si conosce ma è comunque un avanzamento. Io ho vissuto lo stesso travaglio ma da una prospettiva opposta».In che senso?«Per i comunisti si trattava di uscire dagli schemi ideologici conquistando il realismo dell’azione riformista. Per noi socialisti era l’opposto, nel senso che, nell’azione di governo, rischiavamo di restare prigionieri della sua quotidianità, senza una visione. Dovevamo sempre far suonare la sveglia dello sguardo più lungo».La vostra amicizia si sarebbe consolidata negli anni Ottanta, nell’era Craxi.«Sì, davanti al minestrone di Macaluso al Testaccio. Più volte Emmanuele invitò a pranzo Giorgio e me per parlare del nostro possibile futuro comune».Il minestrone di Macaluso opposto alla Milano da bere: unastoria che merita di essere approfondita. Ma ora andrei a Bruxelles nel 2002, quando lei incrocia Napolitano nei corridoi del Parlamento europeo: lei è vicepresidente della convezione europea chiamata a disegnare la nuova architettura istituzionale dell’Unione, lui parlamentare della sinistra e presidente della commissione Affari costituzionali.«Giorgio era veramente convinto della necessità di portare avanti il processo di integrazione, ovviamente allargando il ruolo del Parlamento europeo: questo è il risultato per cui entrambi ci battemmo, poi ratificato dal trattato di Lisbona che era figlio della Convenzione. Prima di quel trattato contavano soltanto le decisioni del Consiglio dei ministri, con il Parlamento quasi sempre ridotto a un ruolo puramente consultivo.Insieme condividemmo non solo successi, anche alcuni passi indietro».Molte delle vostre riflessioni furono raccolte qualche anno fa nel volume della Treccani Europa un’utopia in costruzione. In quel saggio Napolitano denunciava igravi ritardi nel processo di integrazione.«Allora era già cominciata la difesa dei sovranismi e degli interessi nazionali. Ma queste resistenze erano già emerse dal modo in cui era stato approvato nel 2007 il Trattato di Lisbona, dopo la bocciatura della Costituzione europea. Con Giorgio ne abbiamo parlato tante volte: vollero smontare l’assetto degli articoli che avevamo messo insieme nella Convenzione perché non somigliasse a una costituzione.Basta leggere i protocolli e le dichiarazioni che accompagnano il Trattato con la stessa forza legale: “Nulla di ciò che è scritto nell’articolo 33 riduce la prerogativa degli Stati membri…” e via di seguito. In sostanza, non bisognava modificare niente di ciò che preesisteva come potere dei singoli stati nazionali».Oggi ci troviamo davanti all’incapacità dell’Europa di fronteggiare i movimenti migratori. Che cosa si dovrebbe fare?«L’Europa deve uscire dall’equivoco in cui ha finito per cacciarsi negli anni della grande crisi economica,quando fu lasciata aperta solo la strada per i rifugiati politici. Quale fu la conseguenza? Chiunque volesse arrivare dichiarava di essere un perseguitato politico, mentre moltissimi erano perseguitati dalla fame. Più volte ci siamo posti una domanda che oggi esigerebbe finalmente una risposta: ma perché l’Europa non riconosce lo status di rifugiato economico, assumendosi la stessa Europa la responsabilità di fissarne i presupposti? Non è ammissibile sul piano dei diritti umani che si accolgano i perseguitati dei regimi e si respinga chi scappa da carestia e fame. Che cosa tornano a fare in quei paesi se non c’è niente da mangiare?».Sappiamo inoltre che i rimpatri sono molto complicati.«Questo è un altro punto centrale.Entrano in centomila, trentamila avranno forse lo status di rifugiato politico: degli altri settantamila forse quattromila saranno rimandati a casa. E gli altri? Se nessuno li accoglie e li forma, finiranno per ciondolare intorno alla Stazione Centrale a Milano, o a Termini a Roma, potenziale manovalanza per la criminalità organizzata. Segnalo che in paesi come la Germania, indipendentemente dal titolo di rifugiati, i migranti vengono ammessi ai corsi di formazione e aiutati a entrare nel mondo del lavoro. Noi in questi anni abbiamo ridotto le attività nei confronti dei richiedenti asilo. Con il risultato di lasciarli allo sbando, rendendo difficili le relazioni con la popolazione».In Italia la destra al governo cavalca le paure, inasprendo le misure detentive.«Il problema di Giorgia Meloni è comune a molte altre destre sovraniste in Europa, come segnalava un recente articolo dell’Economist: alle prese con la necessità di governare si accorgono che le loro soluzioni estreme non sono praticabili. E se prima urlavano contro l’Europa – il caso di Meloni è sotto i nostri occhi – poi sono costrette a invocarla come risolutore dei problemi. In Italia poi è la storia a complicare un po’ le cose. Lo spiega bene il libro di Paolo Macry sulla destra italiana. Quando scompare la Democrazia Cristiana, il partito che aveva inglobato anche il populismo conservatore di Guglielmo Giannini, questa destra antisistema è andata a mescolarsi con ciò che restava delfascismo: Fratelli d’Italia nasce da questo singolare impasto. Ma oggi non sarebbe interesse della democrazia italiana riuscire ad avere un partito conservatore che non è più un partito fascista?».Il percorso di Meloni appare però molto contraddittorio – altalenante tra von der Leyen e Orbán, tra un accordo con l’Europa e una ripicca – anche perché sul lato sovranista le fa concorrenza Salvini.«Sì, è una situazione difficile per tutti. Per la premier, perché pressata a destra dalla Lega. E per lo stesso Salvini che sta conducendo all’alleanza con Marine Le Pen un partito radicato nella democrazia italiana. Questo non riesco a capirlo, ma non sono il solo».Però la conseguenza è che la premier è spinta a varare misure contro i migranti che sembrano rassicurare il suo elettorato più inquieto.«Il pacchetto di misure approvato da Palazzo Chigi dimostra solo la difficoltà che ha il governo a dominare questa difficile materia. Si tratta di norme di difficilissima applicazione, per dirla in modo garbato, e poco rispettose dei diritti.Se un ragazzo non è in grado di dimostrare la minore età, che fai, lo ributti in mare? I minori, poi, devono essere sempre tutelati e non possono stare negli stessi luoghi degli adulti. Nel complesso si tratta di misure che servono solo a dimostrare l’esistenza di un problema, non a risolverlo».Lei prima accennava alla necessità che l’Europa riconosca lo status di rifugiato economico.Basta?«Sarebbe un passo in avanti. Ma occorrerebbe anche liberare le decisioni intergovernative più importanti dal veto dei singoli Stati.È il meccanismo dell’opting out,frutto dell’esperienza fatta con gli inglesi in Europa. Se fosse introdotto questo dispositivo, una decisione comune sui migranti sarebbe approvata anche senza l’assenso di Orbán: il suo veto varrebbe solo per l’Ungheria e non per tutta l’Unione.Non è l’ideale, ma uno di quei piccoli passi che piacciono ai riformisti come me e Giorgio».È bella l’immagine di Napolitano che definisce l’Europa come la più mite delle utopie. Ma oggi la sua costruzione appare molto complicata.«Per essere più forte l’Europa avrebbe bisogno di una politica estera comune. La sua voce ora conta pochissimo in un mondo in cui è fondamentale essere soggetti che contano. Ma questo obiettivo sembra molto lontano, essendo la politique politicienne estera presa nella morsa delle intese tra gli Stati».Una riforma oggi necessaria?«La creazione di quello che chiamiamo Central Fiscal Capacity, ossia di un meccanismo permanente di finanziamento per la produzione di beni comuni europei. Ora si punta molto su una politica industriale europea, ma non disponendo di risorse comuni ciascun paese procede con i propri mezzi, sconvolgendo il mercato unico: in questo modo la Germania può andare avanti, mentre l’Italia non avendo risorse adeguate finisce per restare indietro».È sempre dell’idea che sia necessario allargare i confini dell’Unione a Est?«È impensabile che i Balcani non facciano parte dell’Unione, così come l’inclusione di Ucraina e Moldavia è un processo non più eludibile. Bisogna vedere se, una volta arrivata a trentaquattro o trentacinque Stati, l’Unione possa mantenere lo stesso livello di integrazione o abbia più senso prevedere livelli diversi. Questo certo non per escludere i paesi meno integrati ma per imporre loro meno vincoli: stare dentro il mercato unico richiede una potenza produttiva e una efficienza dei servizi che non tutti hanno, rischiando così di essere invasi dalle produzioni degli altri».La presenza ai funerali di Napolitano dei paesi più forti dell’Unione, Germania e Francia, ha avuto un significato esplicito: un omaggio a un grande europeista e un monito per gli attuali governanti. Come tutto in quei funerali ha avuto un valore simbolico: da una parte voi oratori che in continuità con il presidente Mattarella avete evocato i valori democratici e costituzionali incarnati dall’ex presidente; dall’altra la premier e i suoi ministri con i volti congelati, in certi casi assonnati o anche molto tesi: tranne qualche raro cenno, non sintonizzati sulla vostra lunghezza d’onda. La stampa di destra, come “Il Giornale”, ha poi usato verso Napolitano toni volgari mai usati in precedenza per nessun ex presidente.«Questa delle due Italie è un’immagine ricorrente nelle cronache dei funerali. Posso solo prenderne atto, non avendo potuto scorgere i volti di chi ascoltava. E comunque bisogna apprezzare che quasi tutto il governo abbia presenziato. Certo è che queste due Italie devono dialogare tra loro. Uno degli insegnamenti di Giorgio è stata la sua profonda fiducia nel carattere processuale della democrazia per cui non esiste una verità o non esiste una decisione che qualcuno possa imporre ad altri. Esiste la parzialità di tutti. Ed era il Parlamento la sede del confronto e della sintesi. Bisogna recuperare questa centralità, se vogliamo difendere la sostanza della democrazia in Italia. Altrimenti il rischio è di smarrire la strada».Lo sa che alcuni siti la danno come premier di un futuro governo tecnico?«L’ho letto e non so se è più penoso o più comico. Capisco che l’Italia è sempre più un paese di anziani, ma la sola idea di affidare il governo a un uomo di 85 anni dimostra una sfiducia nelle generazioni più giovani che l’Italia non merita».