Corriere della Sera, 1 ottobre 2023
Intervista ad Amedeo Minghi
Il pop italiano ha un campione d’enfasi e melodia di nome Amedeo Minghi. Da «Il profumo del tempo» (la canzone che fece innamorare a Sanremo Pippo Baudo e Katia Ricciarelli, che la cantava fuori gara) a «Decenni», da «1950» a quell’ameno tormentone che è tutt’ora «Vattene amore» (recentemente ripresa da Fiorello e Nina Zilli e pure da Stefano Bollani con Valentina Cenni), Minghi è un concentrato di romanticismo e internazionalità con solide radici nella tradizione. Fu il primo a realizzare e pubblicare una canzone su papa Wojtyla intitolata «Un uomo venuto da lontano», brano davvero struggente sulla vita e il pontificato del vescovo di Roma: dalla gioventù in cui fu operaio e poeta, fino all’attentato, dai viaggi nei Paesi lontani alla lotta contro la povertà e la guerra, pellegrino di pace...
«In Vaticano – ricorda l’artista – disponevano già di una canzone sul Papa scritta da Marcello Marrocchi, autore di “Perdere l’amore” (con cui Massimo Ranieri vinse Sanremo 1989, ndr), e cercavano un interprete. Venni invitato a cantare alla sala Nervi con l’orchestra e il coro diretti da monsignor Marco Frisina, nell’ambito di una celebrazione del sacerdozio del Papa. Cosa non frequente, seguì personalmente il concerto, nel quale avevo incluso, riarrangiata e riscritta, anche “Un uomo venuto da lontano”. Alla fine il Papa mi fece un sacco di complimenti e mi chiese il testo del brano, perché non aveva capito bene tutte le parole». «Se Mozart fosse vivo oggi – aggiunge Minghi – lavorerebbe per la Disney e comporrebbe colonne sonore per i cartoni animati che sono la sfida più difficile per un musicista. All’epoca si lavorava di fino... qualità fin nei dettagli. Oggi non ne sarei più capace».
La canzone «Il profumo del tempo» fu galeotta e fece sbocciare un amore a prima vista fra Baudo e Ricciarelli...
«Di canzoni galeotte ne ho scritte molte. Tant’è che 5 membri della band e del mio staff hanno sposato fan conosciute durante i tour. Così oggi sono circondato dal frutto delle mie canzoni. Faccio musica a tutto campo alternando stili e atmosfere. E non manca “la musica da acchiappo” quella che favorisce il primo bacio...».
Lei si è trovato al centro di un momento molto creativo per la musica italiana.
«Ho lavorato con Bacalov, Morricone, Mogol, Pasquale Panella, Gaio Chiocchio, poeta straordinario, basti pensare a “1950”, “Quando l’estate verrà”, “Sognami”: sono canzoni che fanno emergere il lato positivo della vita, le cose belle vissute. Ennio Morricone era più che un amico. Per Mia Martini ho suonato la chitarra, sono stato più volte a casa di Bocelli a Forte dei Marmi (e sono coautore del brano “Per noi”). Ogni cosa lascia un segno duraturo. Morricone era uno attento al dettaglio. La realizzazione del brano “Il profumo del silenzio” lo divertiva e soprattutto la presenza di una grande orchestra sinfonica era una gioia per lui. Il dialogo fra classica e leggera era qualcosa di mai tentato. Io sono una anomalia nel mondo dello spettacolo».
Che rapporto ha con la musica classica?
«Forte. La ascolto spesso, è tutta bella, è l’arte per eccellenza».
Fu una sorpresa scoprire che Katia e Baudo...
«Sì. Katia ha un carattere forte molto deciso. Ha una perfetta voce verdiana. Ma il mio autore preferito resta Puccini».
Perché Puccini?
«Sa toccare note sensibili, sa commuovere, sa arrivare al cuore della gente».
Mietta?
«Fu un trionfo, il “Trottolino amoroso”: 500 mila copie vendute».
Califano?
«Ci ho lavorato in passato. E in qualche modo ci lavoro ancora. È uscito “Sarò franco” un album di inediti di Califano. Dove io ho composto la musica e cantato l’inedito “La mia eredità”».
Quando ha scoperto il Califano cantante?
«Io trovo fantastica la melanconia che c’è nel suo modo di cantare. Una sera dei primi assi Settanta eseguì il brano “Fijo mio” al club 84 di Roma e fu un trionfo. Fino a quella sera lui non era che un paroliere. Da quella sera fu cantautore... bell’uomo dalla voce speciale».
Ha lavorato anche con Rita Pavone.
«Sì, mi chiedevo come faceva ad avere tanta voce su questo corpo minimo. Quando mi chiamò mi fece molto piacere. Preparata e professionale a soli 15 anni. Lei ha cantato un mio brano bellissimo, “Ti perdo e non vorrei”, con cui ha vinto parecchi premi. In Italia il brano fu snobbato. Invece trionfò in Francia».
Lei ha lavorato spesso con Pasquale Panella, autore dei testi del Battisti post-Mogol.
«Un genio che sa manovrare le parole come nessun altro. Ha scritto cose meravigliose. Ci univa la voglia di sperimentare. Insieme abbiamo lavorato alla ricerca di sensazioni nuove, con dialoghi telefonici da 4 ore... in piena notte a sviscerare angoli segreti della creatività».
De Gregori, in relazione alla recente scomparsa della moglie Chicca ha detto «senza di lei mi annoierò molto» (Elena Palladino, moglie di Amedeo Minghi, è mancata il 7 gennaio 2014 dopo 40 anni di matrimonio, ndr).
«Ha ragione Francesco perché la solitudine è forte. Io non so per quanti anni Francesco abbia convissuto con sua moglie. Il mio è stato un rapporto importante... è difficile trovare le parole... Nell’album a cui sto lavorando, “Anima sbiadita”, c’è molto di me e di lei. Avevo bisogno di elaborare il lutto. Se non tiri fuori quel che senti dentro, questo marcisce... Tutte le canzoni d’amore che ho scritto sono dedicate a Elena. Era l’unica che poteva vedermi piangere (l’ho scritto nell’”Immenso”), ammessa alla vera intimità. La mia prima referente. Fare sentire le canzoni a lei per prima era importante per me».
Le due figlie Alma e Annesa?
«Sono un’altra cosa indescrivibile».
Lei è nonno?
«Di un ragazzo alto e bello di 20 anni e di una nipotina di 5 anni. Una perla che mi adora. Non è il quadretto della Barilla, ma ci assomiglia».
I suoi rapporti con i giornalisti?
«Al 90% dei giornalisti rifiuto le interviste. Perché mi fido poco... C’è sempre una differenza fra quello che ho detto e quello che esce sulla carta stampata. Preferisco le dirette tv».
Come ha visto cambiare questo mondo?
«Ogni generazione ha il dovere di cambiare tutto. È sempre successo così. Se non lo fanno i giovani chi lo deve fare? Facemmo anche noi così. Quante cazzate... via il latino dalle scuole, partiti, confederazioni, in piazza per qualunque pretesto. E poi? Alla fine tutto era come prima o peggio. Non siamo riusciti a cambiare il mondo. Adesso i giovani propongono canzoni con testi incomprensibili, parole che non so cosa significano. Perché sono troppe. Noi veniamo da lontano, dalla poesia vera dove le parole contavano. Ma più aggiungi parole, meno dici. Con rime forzate riesci a sfornare stupidaggini incredibili. Il livello oggi è basso basso. Preoccupante».
Tecnologie?
«Quanto basta. Le canzoni le scrivo al pianoforte, sempre. Ho cominciato con la chitarra, poi dagli Anni 80 sono passato al pianoforte. Quando poi mi trasferisco in studio sono obbligato dalla tecnologia. Ai giovani dico: non affidate il 90% del lavoro al computer. Non abbiate fretta. Il computer aiuta, ma non sostituisce. Non va bene andare a casaccio. Devi capire quel che sai e sei veramente. E raccontarlo al meglio».
Lei ha collaborato tra gli altri con Mariella Nava.
«Sì, ma voi critici avete stroncato il brano “Futuro come te” proprio in duetto con lei. Ci avete ribattezzato “Duo Novembre”».
Sì, è vero. Per noi ci voleva il pop, il rock o la canzone d’autore. Sul belcanto all’italiana eravamo spietati.
«Ma c’era del buono anche nel belcanto... Sottovalutarci non è stato intelligente. Quella canzone trattava argomenti nuovi come internet. Voi eravate un pochino indietro».
Altre collaborazioni?
«Con Marcella Bella, Anna Oxa, Marisa Sannia, Gianni Morandi, Andrea Bocelli».
E poi Bongusto, Di Capri, Bruno Martino. Cosa ne pensa?
«Io non mi rendevo conto di cosa fosse una canzone da atmosfera. Mi veniva e basta. “La vita mia” la cantano in chiesa ai matrimoni ma anche ai funerali... Un prete me la fece cantare per desiderio del defunto nonostante il brano parlasse di un amore che va male. Il pubblico fa un uso improprio delle mie canzoni? Va bene così».
I suoi modelli?
«In gioventù amavo Cat Stevens, una voce molto interessante. Il più grande orchestratore era Neil Diamond».
I ricordi più ameni?
«Anni fa vado nella beauty farm di Mességué. Lì incontro Gino Bramieri e leghiamo subito. Alla sera decidiamo di fare una partita a Scala 40. È durata tre giorni. Per ogni carta Gino raccontava una barzelletta diversa. Facevamo gli scemi e ridevamo per qualsiasi cazzata. Nelle pause nessuno toccava le carte. A ogni scarto lui inventava qualcosa. Quelle barzellette lampo che erano esilaranti. Credo di aver vissuto la settimana più divertente della mia vita. Mai riso così tanto».
E poi?
«Aggiungerei due situazioni incredibili. Un Capodanno assurdo. Tornavo da una serata. Eravamo io e il mio autista. A mezzanotte ci siamo fermati. Area di servizio deserta. Rapido brindisi. In lontananza i botti di mezzanotte... Ripartiti sobri con un sorso di frizzante in corpo. Altro Capodanno: io e moglie. Io in smoking, lei in lungo. Pronti per uscire attesi a una festa. Ma il mio cane che si chiamava Totò, golden retriever cominciava già a guaire. E così abbiamo brindato insieme a Totò a casa nostra. Non volevamo lasciare solo il cane. Eppure eleganti truccati perfetti mi sentivo traboccare di affetto e gioia».
La barzelletta-lampo di Bramieri che ricorda meglio?
«Bagnino: “Ehi, lei, ma lo sa che non si può fare pipì nella piscina?”. Bagnante: “Ma lo fanno tutti!”. Bagnino: “Sì, ma non dal trampolino”».