Corriere della Sera, 1 ottobre 2023
Preso l’uomo che fece uccidere Tupac
La breve vita violenta del rapper Tupac Shakur finì esattamente come aveva previsto in una sua canzone, «Dovrò sempre guardarmi alle spalle/La vendetta di un pischello che ho riempito di botte/Una raffica di colpi, e finisce tutto così». E, esattamente come nelle sue canzoni, essendo un regolamento di conti la polizia se n’era lavata le mani. In poche settimane, nel 1996, testimonianze e filmati avevano chiarito la dinamica, il movente, il nome dell’autista dell’auto dalla quale partirono i colpi (l’aveva poi ammesso in un’intervista tv nel 1998: «I colpi sono partiti dal sedile posteriore della mia auto, bro, ma non posso dirti chi ha sparato, bro, è la legge della strada»), chiaro anche il nome dello sparatore.
Però il primo arresto è stato fatto soltanto adesso, più di 27 anni dopo: è ora in carcere «Keefe D», all’anagrafe Duane Keith Davis, 60 anni, uno dei capi storici dei Crips losangeleni, gang nemica dei Bloods ai quali apparteneva Suge Knight produttore di Shakur.
«Negli ultimi cinque anni abbiamo condotto innumerevoli interrogatori e confermato numerosi fatti», ha detto durante una conferenza stampa venerdì notte – glissando sul tempo trascorso da quell’omicidio del 7 settembre 1996 – Jason Johansson, tenente della squadra omicidi della polizia di Las Vegas.
Da oltre un ventennio la «Compton Street Legend», leggenda delle strade di Compton, «Keefe D», si vantava di essere stato alla guida della Cadillac bianca dalla quale partirono i colpi che uccisero Shakur e l’aveva anche scritto nel suo libro, omettendo solo il nome dello sparatore. Identificato quasi subito, nel 1996, come «Baby Lane» cioè Orlando Tive Anderson, membro della gang dei Crips che quella notte era stato pestato in un albergo di Las Vegas – c’era un match di boxe di Mike Tyson – da Shakur, Knight e tre guardie del corpo (Anderson mesi prima aveva malmenato uno degli uomini di Knight e gli aveva rubato una collana). Tre ore dopo, Shakur veniva crivellato di colpi nella sua auto ferma al semaforo, per poi morire dopo sei giorni di agonia.
La lentezza
Gli agenti temevano una guerra tra gang, o volevano proteggere degli informatori
La ricostruzione dei fatti, nota, è stata finalmente confermata dal tenente Johansson l’altra notte: «Davis venne a conoscenza dell’aggressione a suo nipote, si procurò un’arma da fuoco, salì su una Cadillac bianca con Terrence Brown, Deandre Smith e Orlando Anderson, e consegnò l’arma ai passeggeri sul sedile posteriore».
Ma perché questa attesa interminabile? Due le ipotesi. La polizia di Los Angeles frenava temendo una guerra tra gang, e la morte del presunto killer due anni dopo aveva assicurato la «giustizia della strada» pareggiando i conti. Oppure, c’erano di mezzo informatori troppo preziosi, da proteggere. Peraltro nel 2009, si scopre ora, «Keefe D» aveva confessato con la polizia ma l’aveva fatto nel quadro di una raccolta d’informazioni confidenziale e la confessione non era e non sarà utilizzabile al processo. Dei passeggeri di quella Cadillac «Keefe D» è l’unico superstite – Orlando Anderson, presunto sparatore, morì due anni dopo, crivellato in un parcheggio – ma per la legge del Nevada l’aver pianificato la vendetta, trovato l’arma e guidato l’auto gli garantirà se condannato una detenzione lunghissima.
Resta la tragedia della morte inutile di uno dei più grandi talenti musicali della nostra epoca, il ragazzo difficile figlio di due Pantere Nere che aveva scoperto la musica e il teatro in un liceo per giovani artisti e aveva due eroi, Shakespeare e il fondatore delle Black Panther Huey Newton: «Shakespeare è un gangster», diceva. E a Newton aveva dedicato una canzone, «Dobbiamo ribellarci, ha detto Huey/Due spari nella notte, e Huey è morto».