Corriere della Sera, 1 ottobre 2023
Il generale Giap
La prima volta che incontrai il generale Giap, nel 1990, Hanoi era ancora una città senza lampioni e di sera si girava con la pila. Giap, eroe della resistenza vietnamita, ma emarginato dal partito perché non piaceva all’apparato.
N el 1990 Hanoi è ancora una città senza lampioni e di sera si gira con la pila. Poco prima che scenda il buio prendo una bicicletta e vado al n. 30 di Hoang Dieu per consegnare una lettera al soldato di guardia alla grande e decadente villa coloniale: «Gentile Generale Giap, l’ambasciata del Vietnam a Roma mi aveva garantito un’intervista con lei, sono passati dieci giorni, domani sera devo partire per Da-Nang e la sua disponibilità non è ancora arrivata... sono molto rammaricata per il mio lavoro, le spese sostenute, ecc, ecc...». Il mattino dopo i due segugi che il ministero della Comunicazione mi ha messo alle costole bussano alla mia stanza dell’Army Hotel: «C’è l’autorizzazione ad incontrare il Generale oggi dalle 14 alle 14.30». Non ho mai saputo se è stato l’effetto delle mie righe supplichevoli o se era una decisione già prevista nel calendario ufficiale. Mi accoglie in uniforme, e mi congeda alle 18: «Mi scriva e mi tenga aggiornato su quello che succede in Italia». Quest’uomo diventato il simbolo della lotta contro il colonialismo francese, della sconfitta americana e della riunificazione del Paese, non piaceva all’apparato, tant’è che nei numerosissimi libri storici in vendita all’aeroporto e nelle bancarelle il suo nome non c’è, o al massimo è relegato nell’elenco dei combattenti. «È stato emarginato, perché troppo critico con la dittatura comunista vietnamita», mi sussurra Dang Bich Ha, la seconda moglie, sposata nella giungla di Dienbienphu, dove ha messo al mondo tre figli.
I tunnel intorno a Saigon
Quando Ho Chi Minh lo incarica di organizzare un esercito di resistenza, Giap insegna al liceo francese di Hanoi. Non ha avuto una formazione militare, e la sua storia comincia una domenica sera del 1942 con l’addio alla moglie (la prima, e che non rivedrà mai più, torturata fino alla morte dai francesi) e la piccola Anh di appena un anno. Si dilegua verso il confine cinese dove recluta e addestra un minuscolo gruppo di guerriglieri (34), con cui prepara attacchi alle postazioni francesi per prendere le armi e sparire negli anfratti delle montagne. Il nuovo movimento di liberazione che via via si ingrossa si chiama Vietminh. In quegli anni elabora la strategia dei tunnel, scavati di notte, con destinazione finale le 4 basi francesi sulle colline di Dienbienphu. Riempite di esplosivo, saltano il 7 maggio del 1954. Fine del dominio coloniale. Fuori i francesi arrivano gli americani. La strategia dei tunnel si sposta attorno a Saigon, e diventa una fittissima ragnatela dove migliaia di vietcong si nascondono per una decina d’anni nutrendosi di riso e carne di topo. Dopo una guerra sanguinosa costata la vita a 2 milioni di vietnamiti e 58.000 soldati americani, il 30 aprile del 1975 il generale Giap entra a Saigon: nasce la repubblica socialista del Vietnam.
Dischi e profumi dall’Italia
Negli anni successivi ci siamo incontrati diverse volte: «Cosa posso portarvi dall’Italia?». La moglie, professoressa di fisica, apprezzava qualche profumo impossibile da trovare ad Hanoi, mentre lui gradiva le buone incisioni delle opere di Chopin, Beethoven, Mozart. «Da piccolo ho studiato pianoforte e la musica mi ha aiutato molto nelle lunghe notti passate completamente sveglio mentre preparavano l’attacco di Dienbienphu... per riposare un po’ la testa ripassavo le partiture a memoria». Durante una visita in cui mi ha offerto zenzero candito ha suonato brevemente una nota melodia (lo avevo tanto desiderato, e quando mi ha chiesto se l’avevo riconosciuta – mentendo – ho detto di sì), e poi chiudendo la tastiera mi dice: «Avete tanta corruzione in Italia». Era il 1993 e la cronaca su Tangentopoli imperversava anche sul Vietnam News. Era avvilito per il perdurare dell’embargo americano: «Il nostro popolo non ha nessun rancore contro i francesi e gli Stati Uniti, siamo stati invasi, ci siamo difesi e abbiamo vinto, ma adesso abbiamo bisogno che vengano qui ad investire per aiutare il Vietnam ad uscire dalla povertà».
Ero andata a proporgli un’idea concordata con l’Università di Bologna, quella di conferirgli una laurea honoris causa e far incontrare i due nemici storici, Giap e il generale Westmoreland. Il generale americano era euforico: «È il miglior nemico che abbia mai combattuto», quello vietnamita impenetrabile: «Devo essere autorizzato dal segretario del partito». Parte la trafila di richieste ufficiali fra il magnifico rettore Roversi Monaco e l’ambasciatore italiano ad Hanoi Gianluigi Pasquinelli che deve interloquire con l’autorità locale. Dopo mesi di solleciti, seguiti da silenzi, arriva una comunicazione dal nostro ambasciatore: «Ieri sera sono stato ad un ricevimento dove era presente anche il segretario del partito comunista al quale ho chiesto il motivo per cui ignorano una richiesta così prestigiosa, e la risposta è stata questa: se l’Università di Bologna intende conferire un riconoscimento a Vo Nguyen Giap e poi in quell’occasione è presente anche Westmoreland non ci sono problemi, ma siccome l’ambasciata ha ufficializzato che la cerimonia è finalizzata all’incontro fra i due, il partito non può concedere questa autorizzazione». Un capolavoro di diplomazia!
Il rispetto per le gerarchie
Ci rivediamo nel 1998, con me c’era Ettore Mo: lui doveva intervistarlo per il Corriere e io ricostruire la sua biografia per uno speciale Rai 3. Stavolta non c’erano «i delegati» perché viaggiavo con una piccola telecamera e il visto turistico. Da tre anni l’embargo americano non c’era più, erano arrivati gli investimenti occidentali e l’operosità vietnamita era in piena esplosione. Abbiamo viaggiato nei luoghi delle battaglie storiche attraverso i racconti di tutta la famiglia, ma soprattutto quelli del Generale, che riviveva ogni singolo episodio con memoria e precisione chirurgica. Si sofferma sulla svolta arrivata nel ’68 con la famosa «offensiva del Tet»: una serie di attacchi a sorpresa alle basi americane durante la notte del capodanno vietnamita. Lui non era d’accordo, preferiva la tattica del logoramento, ma gli fu comunque affidata la pianificazione e il comando dell’intera operazione: 40 attacchi simultanei, da Huè fino all’ambasciata americana a Saigon. Mi dice che non fu un successo militare, ma accadde qualcosa di inatteso: le immagini trasmesse in tutte le tv americane sgretolarono di colpo le bugie del Pentagono su una imminente vittoria. Le manifestazioni isolate del campus universitario di Berkeley si estesero in tutto il Paese.
Pioviggina quando mi accompagna sulle distese di lapidi: «Ho pianto per ogni mio singolo soldato perso, ma dovevamo vincere ad ogni costo e tutto il nostro popolo era con noi perché avevamo uno scopo». Sui dissidi con i quadri di alto rango durante la guerra, e le accuse del dopo, dice soltanto: «L’albero eretto non ha paura di morire dritto». Il rispetto per le gerarchie è ancora totale. Ci pensa la moglie a non perdonare le umiliazioni inflitte dal Comitato Centrale: «Finita la guerra i dirigenti del partito hanno ucciso i suoi ideali, sono corrotti e nepotisti... dopo tutto quello che ha fatto per il suo Pese lo hanno isolato!». Un piccolo popolo ha sconfitto la più grande potenza perché era una guerra ingiusta, e tutto l’Occidente lo appoggiò compatto, come compatta era la popolazione Usa quando ha cominciato a vedere il prezzo pagato dai suoi giovani soldati. Nelle piazze americane ed europee il grido era uno solo «Usa go home», e a nessuno è mai passato per la testa di chiedere alla Cina e alla Russia di smettere di riempire di armi il Vietnam. Due mondi contrapposti si combattevano, mentre il Generale voleva solo riunificare il suo Paese. E quando c’è riuscito, lo hanno dismesso.
Avevo un budget di 5.000 dollari per il tempo che mi avevano dedicato (tutta la famiglia viveva in ristrettezze). Il Generale era stato chiaro da subito: di questa faccenda se ne sarebbe occupata la moglie. La moglie disse che ci saremmo regolati alla fine. E alla fine, prima dei saluti il Generale alza appena la mano a scansare la busta con dentro il dovuto: «Sono vecchio e malato, non credo ci rivedremo ancora... come cadeau vorrei solo un abbraccio». Un’immagine che ancora oggi mi commuove.
Estromesso dal Politburo nel 1982 non ha più avuto incarichi ufficiali. Nel 1983 viene nominato presidente della commissione nazionale per il controllo delle nascite. Nella stampa di partito e nelle cerimonie celebrative il suo nome non compare mai, ma solo «il Comandante in capo». Escluso dai discorsi e commemorazioni ufficiali, in una di quelle ricorrenze a Huè, lui si presenta a Da-Nang al memoriale dei martiri nella sua uniforme bianca di Generale nobile: «Non sono qui per celebrare la gloria, ma per visitare la tomba dei caduti, come prevede il codice d’onore militare». La popolazione diserta le altre cerimonie e si riversa al cimitero, per vedere Giap in persona. Da insegnante di storia, conosceva il suo ruolo nella storia.
Tre giorni di silenzio
Quando sono tornata ad Hanoi nel 2008 era ricoverato all’ospedale militare. La moglie, i figli e i nipoti vivevano ancora tutti nella villa coloniale che gli aveva assegnato il partito nel 1954. La globalizzazione aveva portato una rapidissima espansione, e quell’area in pieno centro poteva rendere molto di più. Però solo con la morte del Generale il partito poteva riprendersela. Giap se ne è andato il 4 ottobre del 2013 all’età di 102 anni. Il governo fu costretto a dichiarare lutto nazionale per tre giorni: il carro sfilò con gli onori militari lungo Hanoi dove si erano raccolte tutte le generazioni, con decine di migliaia di giovani in maglietta blu con stampato il volto del generale, e invasa da popoli arrivati da ogni parte del mondo.
Furono tre giorni di silenzio. In Vietnam lo ricordano come un funerale secondo solo a quello di Ho Chi Minh. Al contrario dello zio Ho, per Giap nessun mausoleo e nessuna tomba al cimitero di Mai Dich dove sono sepolti gli alti dirigenti del partito. Per volontà della famiglia il Generale riposa in pace in una semplice tomba nel suo remoto paese di nascita, a 500 km da Hanoi. L’associazione dei veterani ha chiesto che la casa di Hoang Dieu, che è stata il luogo dove si è prodotta la storia della riunificazione del Vietnam, diventi un museo aperto a tutta la popolazione. Il segretario del partito promise di prendere in considerazione la richiesta, e il ministro della Difesa di aiutare l’anziana moglie a ristrutturare quelle due stanze dove ha lavorato e vissuto. Sono passati 10 anni, ma al n. 30 di Hoang Dieu non c’è nessun museo.