Corriere della Sera, 30 settembre 2023
Intervista a Franco Branciaroli
Roma 1941. Monaco di Baviera, carcere di Stadelheim, cella di massima sicurezza. Sono le ultime ore di Leo Kaufmann, condannato a morte per aver commesso il reato di «inquinamento razziale». Franco Branciaroli è protagonista de Il caso Kaufmann, dal libro omonimo di Giovanni Grasso, con la regia di Piero Maccarinelli. Lo spettacolo debutta al Teatro Sociale di Brescia il 17 ottobre, poi in tournée.
«Una storia assolutamente vera – spiega l’attore, nel ruolo dell’ebreo Kaufmann – Nonostante lui si sia sempre dichiarato innocente, la Corte di Norimberga ha stabilito l’esistenza di una relazione di carattere sessuale tra l’anziano ebreo e la poco più che ventenne “ariana” Irene Seidel (interpretata da Viola Graziosi). Alla vigilia dell’esecuzione, il condannato chiede di poter incontrare il cappellano, non per una conversione in punto di morte: nelle ultime angoscianti ore prima della fine, ripercorre la sua drammatica vicenda».
A proposito di conversioni, lei nella sua lunga carriera ne ha vissute parecchie...
«Una carriera iniziata per caso. Sono nato in una zona periferica di Milano, dove c’erano le risaie. A 10-12 anni, vendevo sigarette in una bottega dove c’era di tutto, dal salame al caffè. Era gestita da mio padre e fu così che, con i miei amichetti, iniziai a fumare».
E suo padre che diceva?
«Non lo sapeva! Rubacchiavo le sigarette e, con gli altri ragazzini, ci nascondevamo nei fossi delle risaie, per fumare in tranquillità. Però erano senza filtro e i denti diventavano gialli: quando tornavo a casa, dovevo strofinarmeli per cancellare il misfatto, sennò volavano le botte».
Al palcoscenico, come è arrivato?
«Dalla scuola di vita della bottega, son passato alla Scuola del Piccolo di Milano perché, e mi vergogno a dirlo, non volevo fare il militare...».
Cioè?
«Per ottenere il rinvio, occorreva frequentare una università. Per puro caso, incontro in un locale che frequentavo una attrice che lavorava alla radio. Mi disse: potresti frequentare la Scuola del Piccolo, che dura tre anni e rende possibile il rinvio. Poi aggiunse: se vuoi ti preparo io».
Quindi si preparò per essere ammesso alla Scuola?
«Sì, ma avevo un handicap: la erre moscia, ma anche in quel caso sono stato aiutato dalla fortuna. Paolo Grassi, direttore della scuola, aveva lo stesso problema, anzi doppio: oltre alla erre, pure la “v” moscia. Grazie a lui, non mi hanno bocciato, però mi affidarono a un’insegnante tedesca per risolvere il difetto fonetico».
Il suo bell’aspetto ha facilitato il lavoro d’attore?
«Moltissimo, anche se sono stato un bello antipatico: da giovane avevo una bellezza da vasellame etrusco».
Ovvero?
«Avete presente quelle immagini di teste piene di riccioli? Era un tipo di bellezza che piaceva più agli uomini che alle donne: non avevo un aspetto virile. Nel primo spettacolo che ho fatto diretto da Aldo Trionfo impersonavo l’imperatore Nerone, proprio da vasellame etrusco. Aggiungo che la gradevolezza fisica copriva la “cagneria”. Non è vero che uno nasce bravo attore, la recitazione si impara pian piano. Se sei un attore ancora acerbo, ma bello, entri in scena e il pubblico ti segue affascinato dall’aspetto fisico».
Da Trionfo a Patrice Chereau, da Luca Ronconi a Carmelo Bene...
«Che nottate con Carmelo e che sbronze! In scena, eravamo diventati una coppia di fatto. Lui, il classico gentiluomo del Sud, mi considerava suo fratello minore, ma non ero abituato a bere, quanto beveva lui: andava a dormire all’alba e si svegliava alle 5 del pomeriggio».
È stato scelto da Tinto Brass per la sua bellezza?
«Tinto cercava un ragazzo che potesse interpretare l’amante di Stefania Sandrelli ne La chiave: per lui, più della recitazione contava il corpo, la carne, e mi ha usato come una mascotte. I cinque film che ho realizzato con lui sono stati un’esperienza bellissima: un grande cineasta, che sapeva come usare la macchina da presa».
Diventare un suo «attore feticcio» non ha condizionato la sua carriera?
«Mi ha fatto crescere sotto il profilo attoriale e personale: la sensualità non allontana dalla spiritualità. Basti dire che il Cristianesimo è la religione della carne, e infatti parla della resurrezione del corpo...».
Sì, ma passare da Brass a Giovanni Testori il passo non deve essere stato molto breve...
«Il protagonista di In exitu, da me impersonato, è un giovane drogato, omosessuale, che vive i suoi ultimi momenti vitali in un angolo della Stazione Centrale di Milano. Suscitò uno scandalo, non per le parolacce che dice il ragazzo, ma perché l’autore lo rende meritevole della carità di Cristo. Testori era un eversivo, con il raro dono di avere una lingua fatta di carne».
Si è mai imbarazzato a interpretare le sue opere?
«Mi imbarazzava dire parolacce. Testori considerava l’omosessualtà un peccato, anche se lui lo era e lo disse ufficialmente, ma la considerava una dannazione. Aveva anche i cattolici contro il suo cattolicesimo molto spinto».
Lei ha interpretato anche il Gesù di Dreyer. L’incontro con Don Giussani è stata la sua definitiva conversione?
«Me lo presentò Testori: mi portò da questo straordinario prete che fumava toscani e beveva. Non provai alcun imbarazzo per i film che avevo fatto con Brass perché a Giussani della morale non importava niente. Potevi venir fuori da un bordello. Lui amava la cultura e realizzai varie rappresentazioni al Meeting di Rimini, tra queste “Assassinio nella cattedrale”. Ma, tra la folla di spettatori, c’era sempre qualcuno che alzava la mano e mi chiedeva: scusi, ma lei come concilia le scene erotiche con uno spettacolo qui?».