Corriere della Sera, 30 settembre 2023
Intervista a Francesca Barra
Quello che Francesca Barra chiama il suo «quartier generale» sta tutto in una stanza: la cucina. Lei fa il pane, dà la pappa ad Atena, l’ultima arrivata, di 18 mesi, e controlla la prima copia del suo dodicesimo libro uscito in questi giorni; gli altri tre figli, dai 7 ai 17 anni, stanno tutti attorno a un enorme tavolo, chi fa i compiti, chi ascolta musica, chi chiacchiera con Remon, il ragazzo egiziano «venuto dalle onde» e che ora vive con loro a Milano, dove studia per la laurea specialistica; i due cani giocano e fanno baccano (Francesca: «Luce è una trovatella a cui i cacciatori hanno ucciso la mamma, la portò Michela Brambilla in trasmissione da Piero Chiambretti, mi alzai e dissi: la voglio. Zeus è un labrador malato di cuore, sofferente ma molto dolce. M’immagini la mattina che porto a scuola tre bambine e due cani: la gente ci vede passare, sorride, non so se per compassione o simpatia; sempre in cucina, il marito Claudio Santamaria suona la tromba. Francesca: «La studia in modo maniacale: una volta, in viaggio, ha voluto che guidassi io perché era ora di suonare la tromba». Se Claudio è su un copione, può andare peggio. Sempre lei: «Quando preparava l’Odissea di Uberto Pasolini, si vestiva da antico greco e camminava così per casa. Non sa la faccia delle bambine... Ma lui diceva: quando girerò, devo essere a mio agio nel costume. E il film è in inglese, Ulisse lo fa Ralph Fiennes, per cui, di notte, Claudio parlava nel sonno, in inglese». Scene quotidiane da una famiglia allargata. I primi tre figli di Francesca arrivano dal primo matrimonio, Atena da questo in corso. Le chiedo che cos’è l’amore, lei risponde: «Quando Emma, la piccola, ha conosciuto Claudio, ha detto: ora, mamma, capisco. E io: che cosa? Ora, ridi sempre».
Giornalista di mafia, blogger di cucina, presentatrice tv, madre, scrittrice di romanzi e di storie vere... Non è troppo di tutto?
«La vita è una: troppo poco per essere una sola cosa. Io, per attitudine e formazione familiare sono stata educata a dover fare tutto. Mia madre mi ha sempre detto “te la devi cavare in ogni campo”. I miei modelli erano lei e nonna, che ci hanno nutrito e hanno lavorato. Non ho mai pensato che esistessero alternative. E penso che, se la mamma è felice, i figli sono felici».
Cedimenti mai?
«Un po’ di fatica emotiva nell’ultimo anno: Atena aveva lo svezzamento; mio figlio Renato era nel pieno dell’adolescenza; Greta iniziava la prima elementare; Emma finiva le elementari e tutti e tre i grandi uscivano da un lockdown di domande, smarrimenti, ricerca di sicurezza. Quest’anno, tutti hanno avuto bisogno di me in modo diverso. Claudio si è preso i primi tre mesi di vita di Atena per starci accanto ma, dopo, è andato sul set in Grecia e io sono rimasta sola con figli e cani, senza un aiuto fisso, le famiglie lontane, la piccola che si svegliava di notte».
Come ne è uscita, se ne è uscita?
«Ho preso una sorta di anno sabbatico dal lavoro che ha fatto benissimo a tutti e ho trovato un modo nuovo di incontrarci. Immagini quattro figli in stanze diverse: salti da una parte all’altra, stare dietro a tutti è impossibile. Allora, ho creato questa cucina enorme che è il nostro raduno, il “quartier generale”’: qui, mentre i ragazzi studiano, quando la piccola dorme, ho anche scritto il nuovo libro, scrivere è l’unica cosa di lavoro a cui, in quest’anno, non ho rinunciato».
Il libro che esce per Rizzoli, s’intitola «Food Porn – Il rapporto fra i cibi e i cinque sensi» e parla appunto di cibo, con tanto di ricette.
«“Nutrire” è da sempre il primo verbo che mi viene in mente. Se, oggi, mi chiede in sintesi che cosa sono, rispondo: una donna che nutre. Nutro la mia famiglia, nutro una comunità di donne grintose con il mio blog sul cibo, A occhio e quanto basta, nutro i lettori coi libri di cucina e di attualità, con articoli su mafie o migranti...».
Sui social, #foodporn indica le foto dei piatti più attraenti. Per lei, il food porn cos’è?
«Un modo di presentare il cibo e un modo di mangiarlo con piacere. Io ho scoperto l’uomo della vita al ristorante, quando l’ho visto mangiare, e poiché, dopo, in tutte le altre cose, era uguale a come mangiava, l’ho sposato di corsa: io e Claudio siamo accomunati dalla fame di vita e dalla ricerca del piacere in tutto quello che facciamo. E lui mi ha accompagnato nei viaggi di questo libro alla ricerca di sapori e storie di cucina, come quello sulle tracce di Salvador Dalì».
Come è entrato nel suo vocabolario il verbo «nutrire»?
«Mamma e nonna non mi hanno mai detto “ti amo”. Io ai miei figli lo dico, ma ai tempi, non era così facile tradurre in parole i propri sentimenti. Io, però, l’amore l’ho sempre sentito attraverso la loro liturgia di preparazione del cibo. Ancora oggi, mamma non ha smesso di chiedermi tutti i giorni: cosa hai mangiato e cosa hai preparato ai bambini? Attraverso il cibo, dici a chi ami che ti stai prendendo cura di lui: non a caso, quando mio figlio era nell’età in cui tutti i ragazzi mugugnano, lui, invece, uscendo da scuola, chiamava per chiedere: cosa hai preparato oggi a pranzo? Io ho recuperato anche tante ricette della mia infanzia, della natia Basilicata».
Che lavoro facevano la mamma e la nonna?
«Mamma gestiva ristoranti e aiutava papà, che è commercialista. Nonna viene da una famiglia di orafi. Durante la guerra, il nonno aveva una gioielleria ad Addis Abeba, ma fu fatto prigioniero, lei scappò, nascondendo una croce di brillanti fra i capelli e con quella riuscì ad assicurare un futuro a suo figlio. Sono cresciuta fra storie di donne combattenti nella quotidianità. Sono state il mio modello, anche se con mamma ci scontriamo sui temi di attualità politica».
Lei fu candidata alle Politiche 2018 col Pd.
«E papà è stato deputato di Alleanza Nazionale. Ma a casa mia il dibattito politico si portava avanti rispettando le opinioni altrui. Quando mi sono candidata, papà mi ha detto: sono con te, perché sei la persona giusta. Io sapevo che sarei andata a sfracellarmi, ma ho girato 68 comuni lucani, ho fatto del mio meglio e non vincere è stata dura lo stesso. Quando mio padre mi ha sentito dire a mio figlio “ho fallito”, ha sbattuto i pugni sul tavolo e ha detto: non lo dire mai più, se hai lottato per una motivazione nobile, non hai mai fallito».
L’abbandono alla politica è definitivo?
«In questa politica che divide il mondo in giusto e sbagliato, buoni e cattivi, sono un pesce fuor d’acqua. Io preferirei convincere gli altri delle mie idee senza dire: sei un cretino».
Come è entrato Remon nella sua vita?
«Ero andata a parlare al liceo Ruiz di Augusta. Quando ho chiesto chi aveva dei sogni per il futuro, uno solo ha alzato la mano. Era Remon, arrivato in Italia su un barcone, da solo, a 14 anni, perché da cristiano copto, in Egitto, era perseguitato. Il suo sogno era poter studiare. Dopo aver vagato per comunità di accoglienza, era stato affidato a una coppia di Augusta, Marilena e Carmelo, due persone straordinarie. Ho subito legato con lui e la sua storia è diventata un libro, Il mare racconta le stelle – Storia vera di Remon, il ragazzo venuto dalle onde. Poi, Remon si è laureato e quando è stato preso a Milano per uno stage all’Unicef, è venuto a stare da noi. Io sento spesso la sua mamma biologica e Marilena, ci scambiamo le ricette, la nostra è una rete di maternità nell’accezione più ampia».
Lei che cosa voleva fare da grande?
«Volevo essere Jo March di Piccole donne. La prima storia s’intitolava Il desiderio di Lorin: faceva piangere, era una storia drammatica. Quando lo finii, lo lessi ai miei genitori e mi misi a piangere. Mamma mi dice: cambia il finale, se ti fa piangere. E io: non posso, se fa piangere, vuol dire che funziona. Ma sognavo anche di fare la cantante lirica, studiavo canto e piano. Il giorno in cui avevo l’audizione per il Conservatorio, però, mi preparai, ma i miei mi lasciarono in attesa sulle scale e non mi ci portarono. Quando mamma tornò, disse: canterai finiti gli studi».
Suona come un momento crudele.
«Per mamma ha sempre contato più la parte intellettuale che artistica, ma era in buona fede e riteneva un dovere instradarmi verso una professione sicura. Io mi sfogai cantando di nascosto nei pianobar. Quando raccontai quell’episodio a Claudio, però, ne restò impressionato. Così, il giorno in cui compivo 39 anni, rispondo al citofono e vedo un uomo in papillon. Ero in pigiama, apro. Lui entra e mi dice: vengo dal conservatorio, la aspettavamo per l’esame di canto, se la sente di farlo oggi?».
E lei l’ha fatto?
«Non cantavo un’aria da quando avevo 17 anni, mi vergognavo, ho guardato mio marito e volevo ammazzarlo. Ma i miei figli erano eccitatissimi e ho dovuto fare l’esame in salotto. Da che mi vergognavo, mi sono liberata ed è stata la realizzazione dell’unico sogno che non avevo ancora realizzato. Dopo, Claudio voleva che studiassi, più volte ha cercato di farmi fare la corista e, fosse per lui, dovrei andare a Sanremo fra le nuove proposte. Ma gliel’ho detto: ormai è tardi».
Che aria cantò?
«Nel cor più non mi sento: un duetto dalla Molinara di cui ho cantato entrambe la parti».
A Sanremo, è andata comunque: per ballare con suo marito a un’esibizione di Achille Lauro, come ci siete arrivati?
«Io arrivavo da un periodo un po’ complesso, dalla ricerca di un figlio con Claudio, dalla perdita del bimbo a gravidanza inoltrata. Era stata una batosta, più di quanto fossi riuscita ad ammettere con me stessa. Quando ci è stato chiesto di girare il suo video e andare al festival, ero titubante, ma non ho voluto fare l’errore di mia madre: credere che, se ballo, perdo valore come persona o professionista. Alla fine, prepararmi per quel ballo è stato terapeutico».
Com’è Achille Lauro visto da vicino?
«Un signore di altri tempi. Educatissimo. Un vero professionista e un ragazzo dolcissimo che ha colpito i miei bambini per la gentilezza».
Tre bambine e due cani
Con la prova di canto i sogni da realizzare sono finiti?
«Da quando le bimbe me lo chiedono, voglio aprire un piccolo ristorante con tutta la tribù».