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 2023  settembre 30 Sabato calendario

Sull’Ottava di Mahler

MAHLER TI DÀ IL TEMPO

A vrò avuto dieci, forse dodici anni; non di più. Ero a Roma con mio padre. Mi portò con sé all’Auditorium Rai presso il Foro Italico, dove aveva alcuni appuntamenti. Mentre lui lavorava, trascorsi il pomeriggio inchiodato alla sedia in platea, e quando iniziarono le prove dell’Orchestra Rai, rimasi folgorato da quei suoni, dall’impatto di un universo che non conoscevo, ma che mi fece sussultare sulla sedia. Se mi concentro riesco a risentirli ancora quei suoni, quell’esplosione tragica nell’attacco del finale di una sinfonia che non conoscevo.
Sul podio – lo imparai naturalmente in un secondo tempo – c’era un giovanissimo Zubin Mehta, in quegli anni al suo debutto in Italia, con la Prima sinfonia di Gustav Mahler. La stessa che dirigerò con la Filarmonica della Scala il 26 ottobre all’interno del Festival Mahler nell’omonimo auditorium milanese, attaccandola al Preludio sinfonico in Do minore del 1876, che il musicista boemo compose a 16 anni, quando era ancora allievo di Anton Bruckner a Vienna. Dura meno di dieci minuti ma contiene già nelle prime battute il suo mondo sonoro abrasivo: il tema parte dai violoncelli con un intervallo di tritono Do-Fa diesis (veniva considerato una forte dissonanza, ndr) e poi, a metà del brano, troviamo addirittura una frase musicale che avrebbe utilizzato per il suo Das Klagende Lied, il suo primo grande lavoro per coro e orchestra. Bastano già quei giovanili sette-otto minuti del Preludio per dischiudere l’universo provocatorio di un compositore che ha dominato il Novecento: nel suo percorso sinfonico, dalla tonalità è arrivato alla politonalità e con la Decima sinfonia ha addirittura anticipato di pochissimo la dodecafonia dei tre grandi austriaci – Arnold Schönberg, Alban Berg e Anton Webern – della Seconda Scuola di Vienna. Nell’Adagio di quella pagina è arrivato pionieristicamente a comporre una serie di nove suoni consecutivi, avvicinandosi davvero all’avanguardia dodecafonica, che doveva ancora nascere.

Una cosa curiosa legata alla Prima sinfonia: è l’unica partitura in cui Mahler ha scritto i metronomi, ben undici indicazioni di tempo diverse. Dalla Seconda in poi non lo fece più: volle seguire in quella scelta Richard Wagner. Dirigendo la Prima in molti pensano di ignorare queste indicazioni temporali, sapendo che nelle altre sinfonie quasi mai appaiono i metronomi. Ma la struttura di una sinfonia la identifichi da interprete se hai il senso anche della struttura del tempo, non solamente della scrittura delle note. Il tempo musicale viene dettato dal controllo da parte del direttore d’orchestra del metronomo. Ed è una cosa purtroppo molto desueta in questo momento in cui si pensa che chi guarda il metronomo abbia un atteggiamento quasi démodé; invece è esattamente il contrario. Significa imporsi l’uscita dai propri comodi, dalle proprie abitudini. È una posizione scomoda quella di cui si sta parlando, perciò è facile risolverla ignorandola.
Autori come Igor Stravinskij, Giacomo Puccini, Béla Bartók hanno incentrato tutta la loro scrittura in maniera parallela alle indicazioni metronomiche. Il che era, forse giustamente, un atteggiamento scritto di sfiducia totale nei confronti di noi direttori d’orchestra. Sapevano già che ci sarebbero stati abusi di autocompiacimento, di comodo, di risoluzione delle difficoltà, andando magari adagio anziché andando con i tempi scritti.
Ogni tanto mi viene chiesto quante esecuzioni di Mahler io abbia diretto, ma non ho mai saputo rispondere. Alcuni musicologi sostengono che io sia in assoluto il direttore che ha eseguito più volte l’Ottava. Se fosse vero, ne sarei a dir poco lusingato, perché, oltre ad essere una sinfonia che amo tantissimo, è considerata una specie di viaggio epocale in un mondo incredibile. È come avvicinarsi alla cima dell’Himalaya che non vuol dire averla raggiunta, ma avere l’illusione di cominciare a vederne la vetta estrema. L’Ottava è l’Himalaya di tutte le sue sinfonie ed è proprio con quella che ho iniziato il mio percorso di direttore a Lucerna, dopo la scomparsa di Claudio Abbado, che non fece in tempo a dirigerla. Sono cresciuto sui suoi cicli sinfonici di Mahler che dirigeva da vero pioniere alla Scala, quando ero suo assistente.

Mahler è un mio compagno di vita dagli anni Ottanta. Il mio rapporto professionale con le sue sinfonie ebbe inizio con la Decima, completata in maniera straordinariamente onesta e senza i protagonismi di un orchestratore da Deryck Cooke. Sì, ho cominciato dall’ultima, a Berlino negli anni Ottanta. Era il mio primo impegno stabile: direttore alla Radio Symphony Orchestra. Il mio sovrintendente di allora, il compositore Peter Ruzicka, quasi mi spronò a iniziare così giovane il percorso mahleriano. Era convinto che sarebbe stata una strada che avrei intrapreso con successo. Era il 1982, non avevo ancora trent’anni... In quel periodo non esisteva fra l’altro il baby boom dei direttori d’orchestra. Mi ci sono trovato in mezzo, da così giovane. Ma dopo il Mahler affrontato forse prima del tempo, per altri repertori, ho cercato di procrastinare il più possibile. È il caso delle sinfonie di Ludwig van Beethoven: un lavoro lungo, lento, sofferto e volutamente posticipato.