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 2023  settembre 30 Sabato calendario

I comuni con meno di dieci abitanti per chilometro quadrato

Via dalle terre estreme. Non ci sono «ma» che tengano, le tendenze demografiche italiane questo dicono: ch’è in atto un sistematico spopolamento delle terre estreme. Terre estreme? In Italia? Perché no? È una questione di punti di vista, certamente, ma se unite per un verso tante vastità territoriali pressoché sguarnite di abitanti con la loro posizione che più periferica non si potrebbe, ai confini del Paese e/o lungo le catene montuose, beh, avrete un’idea di quel che può essere considerata una terra estrema in Italia.

Ed eccole, allora, le approssimazioni più accettabili delle terre estreme italiane: i comuni con meno di 10 abitanti a chilometro quadrato (kmq) in un Paese, il nostro, con 195 abitanti a kmq. Comuni, ed ecco l’altro aspetto, così estremi che sembrano messi lì dove stanno apposta per presidiare confini e frontiere. Ma eccone una prima, essenziale sintesi statistica. Secondo gli ultimi dati del 31 dicembre 2022 i comuni italiani con meno di 10 abitanti a kmq, i più spopolati d’Italia, sono 278, misurano complessivamente 16.783 kmq (più della Campania e poco meno del Lazio), per un totale di 102.749 abitanti. Hanno una superficie media di 60,4 kmq e una popolazione media di 370 abitanti. Sono dunque al tempo stesso comuni molto estesi territorialmente, avendo una superfice media del 60 per cento superiore alla superficie media dei comuni italiani, e molto piccoli demograficamente: ci vogliono venti di questi comuni per eguagliare la popolazione media dei comuni italiani (circa 7.400 abitanti).
Sono comuni di montagna, spesso di alta montagna. E non è così significativa la loro altezza media calcolata in base alla sede del municipio, che si aggira attorno ai 900 metri sul livello del mare. I municipi si trovano infatti nei pur minuscoli centri abitati e in posizioni più comode e agibili, cosicché complessivamente i residenti sono situati non di poco a una ben maggiore altezza. Nell’insieme di questi comuni la densità abitativa è di appena 6,1 abitanti a kmq. Per dare un’idea: se l’Italia avesse quella stessa densità, la sua popolazione sarebbe non di 59 ma di 1,8 milioni di abitanti: Lilliput, in pratica.
Ma dunque, ha senso accentrare l’attenzione su 278 comuni che tutti assieme hanno tanti abitanti quanti ne conta Piacenza, certamente non una delle più grandi città d’Italia? Lo ha, per un paio di buoni motivi.
Primo motivo: questi 278 comuni hanno una caratteristica che li rende geograficamente, ambientalmente ed ecologicamente, e molti di loro in qualche modo pure politicamente, importanti: presidiano in certo senso il territorio italiano – addirittura la sua parte più delicata, quella più esposta allo sconquasso dei fenomeni naturali. Lo presidiano innanzi tutto ai suoi confini continentali, e dunque lungo l’intero arco alpino, dalla Liguria al Friuli-Venezia Giulia, che provvede a separarci da Francia, Svizzera, Austria e Slovenia; e poi, ma a questo riguardo il discorso si fa del tutto eco-ambientale, lungo la dorsale appenninica dall’Emilia alla Calabria, e fino ai rilievi montuosi interni della Sardegna.
Secondo motivo: perdono abitanti a una velocità che ne lascia intravvedere la sparizione. Un finale già scritto. Inevitabile. A parte qualche comune di questi 278 che si salverà, la maggioranza, tra il 60 e il 70 per cento, tra mezzo secolo non esisterà letteralmente più. Ed ecco che abbiamo così la possibilità di vedere qui all’opera il prodursi in tempi strettissimi del depauperamento demografico del Paese. Magra consolazione, si dirà. Però il «campo» insegna sempre qualcosa, come nelle partite di pallone.
Sono comuni di frontiera, in certo senso. Ma chissà se si sentono essi stessi di frontiera; chissà se tali si sentono almeno quei 165 di essi che nelle regioni del Nord con l’esclusione dell’Emilia Romagna – da ovest ad est: Liguria (11 comuni), Piemonte (85), Val d’Aosta (15), Lombardia (24), Trentino-Alto Adige (10), Veneto (3), Friuli-Venezia Giulia (17) – al confine con altri Paesi realmente si trovano. Meriterebbero forse per questo solo fatto un occhio di riguardo da parte dello Stato e delle istituzioni territoriali? Chissà. Perché per un verso le frontiere non sembrano più esistere, col fatto dell’Europa e della cessione ad essa di quote di sovranità da parte degli Stati membri. Ma per un altro verso, sia in relazione ai flussi migratori, specialmente se segnati dalla clandestinità, che alla difesa del territorio, minacciato più marcatamente di ieri dalle vicissitudini climatiche, le aree frontaliere non sono mai state tanto importanti.
Ebbene, noi abbiamo a presidiare queste frontiere, non da soli ma in primissima fila, quei 278 comuni che complessivamente hanno la stessa estensione di una regione come il Lazio e la popolazione di una media città che si assottiglia a vista d’occhio. Nel corso del 2022 hanno perso complessivamente l’1,4 per cento della loro popolazione, quasi cinque volte quello che ha perso percentualmente in quello stesso anno la popolazione italiana: lo 0,3 per cento. Cinque volte: un divario a sua volta estremo. Tra non molto, si è detto, gran parte di quelle aree di frontiera non avrà più abitanti. Cosa comporterà questo spopolamento radicale? Riusciremo comunque a preservare certi equilibri ambientali e geografici? Non si rifletterà la loro desertificazione in una più accentuata fragilità del territorio italiano, che diventerà così ancora più esposto a eventi estremi?
Si consideri, peraltro, che se pure il clima si stabilizzasse e normalizzasse, il discorso che riguarda quei comuni e quelle aree non sarebbe poi tanto diverso: giacché quanti quei luoghi abitano, e che per il fatto stesso di abitarvi li difendono e proteggono, si andrebbero comunque estinguendo.
Quei 278 comuni diventano così la spia di uno spopolamento del Paese che procede in modo tutt’altro che omogeneo sul territorio nazionale, che non fa anzi che aggravare squilibri, diversità, contraddizioni che percorrono la popolazione italiana, determinando autentiche linee di faglia capaci di allontanare intere aree e regioni le une dalle altre, e di metterle in contrasto se non perfino in contrapposizione le une con le altre.

Al censimento del 2011 i comuni con una densità di meno di 10 abitanti a kmq erano 275, tre in meno di quelli al 31 dicembre 2022. Alcuni comuni tra quella data e oggi hanno visto la loro popolazione scendere sotto quella soglia dei 10 abitanti a kmq, altri – ma in numero inferiore rispetto ai primi – quella soglia l’hanno invece superata. E comunque ben 269 comuni di questa fascia di densità abitativa sono gli stessi oggi di ieri. Dunque possiamo verificare che cosa è successo alla popolazione di questi 269 comuni con meno di 10 abitanti a kmq nell’arco degli 11 anni, 2 mesi e 22 giorni intercorrenti tra il censimento del 9 ottobre 2011 e il 31 dicembre 2022.
È successo che la popolazione di questi comuni è scesa dai 112.495 abitanti del censimento del 2011 ai 96.858 del 31 dicembre 2022. Ovvero che ha perso 15.637 abitanti, pari al 13,9 per cento degli abitanti al 2011, a una media di contrazione di 1,24 per cento annuo che corrisponde a una stima di sopravvivenza di questi comuni di neppure 81 anni. Un’autentica catastrofe. Annunciata, però, visto e considerato che la stima di sopravvivenza è fatta in base non a chissà quali cervellotiche ipotesi demografiche ma alla tendenza, netta e lunga, e a parere di chi scrive pure irreversibile, degli ultimi 11 anni e spiccioli. Si noti peraltro, a questo riguardo, che la perdita annua dell’1,24 per cento nel corso del periodo considerato è più piccola di quella fatta registrare nel 2022, e pari all’1,4 per cento. Insomma, la perdita di popolazione è crescente.
Il 30 per cento di questi comuni ha perso più del 20 per cento della popolazione e solo 24 di essi, meno del 9 per cento, gli abitanti invece di perderli li hanno aumentati nel periodo considerato. Questi dati si prestano a due importanti considerazioni.
Prima considerazione. C’è una marcata cesura tra Nord (sempre con esclusione dell’Emilia Romagna) da un lato e Centro-Sud dall’altro, che è come dire, nella fattispecie, tra comuni che si trovano sulle Alpi e comuni che si trovano sugli Appennini. Per quanto l’altezza media sul livello del mare sia nettamente superiore nei primi rispetto ai secondi, quasi tutti i comuni che guadagnano abitanti invece di perderli, ben 20 su 24, sono comuni delle Alpi, e solo 4 su 24 sono comuni degli Appennini e dei rilievi interni delle isole. Insomma, se un po’ di vitalità è rimasta in questa fascia abitativa che individua le aree più estreme del Paese, è possibile trovarla al Nord, mentre è praticamente inesistente o quasi al Centro-Sud.
Impressione confermata dai dati che riguardano la stima della sopravvivenza in anni: ch’è di 96 anni per il totale dei comuni delle Alpi, e di 69 anni, quasi un terzo in meno, per i comuni degli Appennini e altri rilievi. E infine ribadita dal fatto che la sopravvivenza ha le sue vette decisamente più alte nei comuni del Trentino-Alto Adige (ben 228 anni) e della Val d’Aosta (168 anni) e quelle più basse nelle regioni del Sud, a cominciare dalla Calabria (appena 40 anni). Guardando poi a questi ultimi dati si capisce bene, ed è questa la seconda considerazione, come, per quanto spopolati al massimo grado, alcuni comuni di questa fascia che si trovano segnatamente in Piemonte, Val d’Aosta e Trentino-Alto Adige riescano a non farsi risucchiare nella spirale demografica dell’estinzione coltivando una qualche vocazione turistica – pur se le grandi mete del turismo tanto estivo che invernale si concentrano in comuni di altre e superiori densità abitative, non così spopolati come quelli di questa fascia.

Ho anticipato che non c’è salvezza per questa fascia di comuni. Alcuni, pochi, si salveranno, è vero, ma la grande maggioranza soccomberà, e anche in tempi assai ravvicinati. E non c’è soltanto la perdita di abitanti, che abbiamo visto essere assai rapida, a contare. C’è anche un altro fattore sul quale poco ci siamo soffermati, ma che conta moltissimo: le minime dimensioni demografiche. 43 di questi 278 comuni non arrivano a 100 abitanti; 119, poco meno della metà, non arrivano a 200 abitanti. Appena 17 di questi comuni superano, di poco, i mille abitanti, forse la dimensione minima per poter sperare in una qualche vitalità demografica, che evidentemente non può esserci quando la popolazione non arriva neppure a 100 o 200 abitanti. Qui, in comuni a tal punto poveri di abitanti, praticamente non ci sono nascite, la popolazione femminile in età feconda è ridottissima, l’età media molto alta, così come l’indice di vecchiaia, i rari, rarissimi giovani scendono nelle pianure, vanno ad abitare le città. Impossibile sperare in una ripresa, in una salvezza, in queste condizioni. La retorica dei piccoli comuni che vivrebbero una nuova fioritura per l’abbandono della grande città da parte di tanti che cercano lidi più tranquilli e riposanti, specialmente ora che con l’accoppiata pc-internet si può lavorare anche da remoto, non è che retorica, appunto. La realtà è che il movimento che dall’alto scende in basso è assai più appetibile e consistente di quello contrario che dal basso sale in alto. Una realtà con la quale fare i conti, non foss’altro per vedere di prendere qualche – peggio che difficile – contromisura.