La Lettura, 30 settembre 2023
Sulle Alpi
«La Francia attira il forestiero con i divertimenti (...), noi dobbiamo attirarlo per le glorie del nostro passato e le bellezze naturali inondate dal nostro sole». È il 1931 quando Italo Bonardi si alza in piedi alla Camera dei deputati per pronunciare queste parole. Rampollo di una famiglia in Parlamento da due generazioni, delegato del Touring Club, Bonardi è uno degli uomini chiave di quella «industria del forestiero», come viene chiamata all’epoca, su cui il fascismo punta tanto per attirare valuta preziosa in Italia e finanziare le proprie politiche, imperiali e di consenso.
Si può dire che l’Assalto alle Alpi, come lo chiama Marco Albino Ferrari nel suo nuovo libro per Einaudi, sia cominciato qui. Con l’ansia di inserire l’Italia nei nuovi circuiti di un turismo che proprio in quegli anni, in tutta Europa, si stava trasformando da passatempo d’élite a mercato di massa, da lusso per pochi a diritto reclamato da e per tutti. Il forestiero, il turista di oggi, diventa allora un generatore di ricchezza per territori e comunità che di soldi ne hanno visti tradizionalmente pochi. E questo è tanto più vero per quelle montagne che della Penisola formano il confine e che a lungo sono state considerate un problema più che una risorsa: luoghi ostili per i pochi viaggiatori che osavano avventurarsi tra gole e passi, popolate da pastori poco meno selvatici delle loro bestie, avvolte da leggende oscure. Poi, un paio di secoli fa, l’immagine delle Alpi cambia. Le cime innevate divengono luoghi della purezza, vicine a Dio, lontane dalle città rese malsane dall’industria moderna. Un’arcadia su cui il primo alpinismo, elitario e romantico, imprime il proprio marchio di nobiltà: sfidare sé stessi per «conquistare l’inutile», rischiando anche la vita al solo scopo di scoprire il proprio limite, per citare la definizione che Christian Arnoldi (L’alpinismo e la vertigine) ha dato dello spirito dell’alpinista che affronta la natura.
Già nei giorni in cui Bonardi esalta la nuova industria turistica nazionale, di quella piccola schiera di borghesi colti (molti dei quali nordeuropei) innamorati dei monti che ha fatto la fortuna di un modesto numero di guide e albergatori, rimane però ben poco. La Grande guerra ha donato popolarità alle Alpi, baluardo sacro della nazione, quinta di scena di tante gesta epiche raccontate dai disegni di Achille Beltrame o dalle memorie dei combattenti, come il futuro scrittore e giornalista Paolo Monelli, uno dei tanti giovani di città innamorati di sci e cime che si sono arruolati negli alpini. Così, appena scoppia la pace, arrivano i pellegrinaggi patriottici, i soggiorni delle associazioni e dei dopolavoro, le prime stazioni sciistiche con impianti a fune e gli hotel. Solo alcune centinaia di posti-letto all’inizio, come nella Sestriere voluta da Giovanni Agnelli negli anni Trenta, ma la strada è segnata. Da lì ai cubicoli di cemento degli ecomostri come Viola St. Grée, monumento all’inevitabile fallimento dello sci da discesa, Marilleva o le orripilanti torri al passo del Tonale, il passo è breve. E ancora più breve quello che conduce dallo scempio della cementificazione alla lunaparkizzazione delle valli, con villaggi ridotti a rumorosi parchi divertimento. I ritiri calcistici di Dimaro in Val di Sole, rito annuale per visitatori che reclamano non sentieri e boschi, ma l’intrattenimento chiassoso di una spiaggia urbana, sono un efficace esempio dei paradossi raggiunti da un’industria della vacanza in montagna in cui la montagna non è più nemmeno lo scopo, ma una mera cornice.
Eppure, Ferrari non si limita a catalogare gli effetti devastanti del turismo di massa. Perché le Alpi sono minacciate non solo dall’avidità e dalla cultura del divertimento, ma anche dallo speculare estremismo della purezza. Il mito dell’ambiente incontaminato si nutre da più di un secolo di icone potentemente familiari, e altrettanto decisamente kitsch. Heidi e le sue caprette stanno alla realtà della vita in alta quota come le spa e i bagni di fieno alla quotidianità dei contadini dolomitici di cento anni fa, e per aiutare davvero la comprensione della montagna Heidi bisognerebbe ucciderla, come affermava Sergio Reolon in un illuminante libretto. Invece, i figli dell’ambientalismo ideologizzato proliferano. Gli animalisti più radicali che invocano la scomparsa dell’uomo dalle montagne del Trentino e il dominio degli orsi ne sono ottimi (ancorché ingenui) rappresentanti.
Accerchiate da questa duplice spinta distruttiva, le Alpi sono minacciate come ecosistema equilibrato di cui l’uomo è parte integrante da millenni. È questo equilibrio che bisogna ritrovare. Basta poco. Tornare alla montagna come un luogo di apprendimento e non di divertimento, sulle orme degli alpinisti, sarebbe il primo passo. Per cercare nelle Alpi solo ciò che possono dare senza essere violate. Il senso della fatica, della misura. E il bene più prezioso che conservano: il silenzio.