La Lettura, 30 settembre 2023
Cibi rari da salvare
Dan Saladino, giornalista radiofonico britannico, è l’autore di Mangiare fino all’estinzione. I cibi più rari del mondo e perché dobbiamo salvarli, edito da Einaudi. A «la Lettura» ha raccontato le storture del sistema alimentare globale, messo sotto stress da diverse minacce, e la sua esperienza, maturata in anni di ricerche e nata in Sicilia, la terra di suo padre e il luogo dove ha trascorso le estati della sua infanzia. «Ho iniziato a fare programmi radiofonici per la Bbc dedicati al cibo – spiega – intorno al 2007. Un viaggio in Sicilia, fra i campi alle pendici dell’Etna, è stata la prima storia che ho raccontato. Poi ho scoperto l’Arca del Gusto di Slow Food, un catalogo che comprende oltre cinquemila cibi provenienti da più di cento Paesi. Ho viaggiato per dieci anni alla ricerca di quelli in via di estinzione. Erano tantissime storie, una fantastica opportunità per un giornalista, ma all’epoca non avevo ancora studiato i motivi della loro scomparsa. Questo è avvenuto dopo, quando ho iniziato a pensare al libro che avrei voluto scrivere».
E che cos’ha scoperto durante la fase di ricerca?
«Mi sono chiesto in che modo la gran varietà di cibi presente nell’Arca del Gusto di Slow Food si sia sviluppata e per quale motivo, poi, nel corso del XX secolo, sia entrata in crisi attraverso un’accelerazione dell’omogeneizzazione delle pratiche agricole e alimentari in molte parti del mondo. Sono nati quindi in me l’interesse per le tradizioni alimentari e la consapevolezza che ogni storia di cibo è una storia economica e di biodiversità. Ho anche capito che le storie di un singolo alimento, se complesse e calate in un contesto ben preciso, incontrano il favore del pubblico. Sono accoglienti e riguardano, in qualche modo, la speranza».
Per quale motivo la diversità in campo alimentare è così importante?
«Per molto tempo e per motivi comprensibili, l’obiettivo di chi produceva cibo era la resa. Come possiamo aumentare la produttività? Come possiamo sconfiggere la fame nel mondo? La genetica, i fertilizzanti industriali e i sistemi di irrigazione tecnologici ci hanno consentito di ottenere molto più cibo rispetto a prima, ma hanno anche causato una perdita di varietà. Inoltre, il sistema a monocultura consente sì alte rese, ma a fronte di una maggiore vulnerabilità (alle malattie, ai cambiamenti climatici, alla siccità…) e di una perdita di complessità nel sistema agro-alimentare. Secondo la Fao dipendiamo da non più di 9 colture e mais, frumento e riso forniscono il 50% delle calorie mondiali. In Tanzania, gli Hadza, che sono ancora oggi cacciatori-raccoglitori, possono contare su un menù che comprende fino a 800 specie diverse fra piante e animali. Una diversità alimentare che sappiamo essere stata importante durante la storia evolutiva della nostra specie».
Esempi di questa vulnerabilità?
«Quello tipico è la banana. Ne mangiamo una sola varietà, la Cavendish, che è di fatto un clone, uniforme a livello genetico, incapace di co-evolvere insieme ai patogeni che la attaccano. Alcuni di questi, come il Fusarium TR4, un fungo, sono una minaccia diffusa a livello mondiale. Anche il caffè non se la passa bene. Oggi ne consumiamo due varietà, l’Arabica e la Robusta, che sono però entrambe vulnerabili al climate change e alle malattie (l’Arabica in particolare). Il punto è che in natura ne esistono moltissime varietà, alcune delle quali purtroppo sono andate perdute nei secoli passati. Oggi alcuni scienziati, compresi quelli dei Royal Botanic Gardens di Kew, in Gran Bretagna, stanno cercando di riportare più diversità, e quindi resilienza, nella produzione mondiale di caffè».
Ma l’estinzione di alcuni cibi tradizionali è sempre un male? Pensiamo al consumo, molto discusso, di alcune specie animali a rischio.
«In alcuni casi gli esseri umani hanno sovrasfruttato alcune fonti di cibo. Nel libro faccio due esempi, le ostriche e il salmone dell’Atlantico. Le cause della loro crisi sono molte – inquinamento, costruzione di dighe, patologie… – spesso di origine antropica. Ritengo però che dovremmo evitare di generalizzare e analizzare invece la situazione caso per caso. Anche per quanto riguarda temi di grande impatto, come l’allevamento. Dovremmo evitare messaggi semplificanti ed etichette come “cibo buono” e “cibo cattivo”. Di nuovo: abbiamo bisogno di complessità e di diversità».
E quant’è importante l’educazione alimentare per i più giovani?
«Fondamentale. Non è importante soltanto insegnare a cucinare i cibi, ma anche a comprarli seguendone la stagionalità, il che permette spesso di ottenere una discreta variabilità alimentare anche facendo la spesa al supermercato. Dovremmo celebrare la diversità nei nostri piatti: le verdure, i tagli di carne meno pregiati, le specie di pesce che non rientrano nelle cinque che consumiamo di solito. E infine, questione centrale, dobbiamo insegnare ai più giovani in che modo il cibo viene prodotto e quali sono le opzioni che abbiamo per il futuro. La mia generazione ne sapeva ben poco. Nel libro assaggia diversi cibi dai sapori molto forti. È a rischio anche la gustosità dei nostri piatti? Oggi i supermercati offrono moltissimi prodotti. Questa ricchezza è però superficiale. È il risultato dello straordinario lavoro ingegneristico dell’industria agro-alimentare, che ha trasformato poche colture in migliaia di prodotti diversi. Inoltre, questa “diversità”, che è la medesima in gran parte del mondo, si riflette in gusti e sapori. Molti cibi odierni risultano subito graditi al palato. Il sapore amaro, al contrario, è in via di estinzione. In Gran Bretagna, all’inizio del XX secolo, era possibile mangiare una mela al giorno per quattro anni senza consumare la stessa varietà di mela due volte. E in quella diversità c’era una grande ricchezza di sapori, anche amari. Oggi le mele sono quasi tutte croccanti e dolci. I nostri palati stanno cambiando».
Ma c’è qualche cibo che ha messo a dura prova il suo, di palato?
«Con gli Hadza in Tanzania ho assaggiato il fegato di un porcospino. Alle isole Fær Øer (arcipelago danese tra Scozia, Islanda e Norvegia, ndr) ho mangiato carne di pecora fermentata. Ho incontrato diversi cibi che molte persone giudicherebbero immangiabili. Ma ogni cibo per me è un’esperienza, perché parte di un contesto. Assaggiare quel cibo è come mangiare una storia. Ma ad alcuni, certo, mi sono dovuto abituare. Un esempio: l’oca, un tubero delle Ande (Oxalis tuberosa), fermentato in acqua e poi lasciato essiccare per mesi. Sa di fienile e quando lo metti in bocca ti sembra di mangiare il cortile di una fattoria. Ma è un frutto della terra che ha reso vivibile uno dei luoghi più inospitali del pianeta…».