La Lettura, 30 settembre 2023
Biografia di Pinocchio
«Dico Lire 500»: e cinquecento furono. Venduto Pinocchio. È il 12 dicembre 1882 quando Carlo Lorenzini, cioè Carlo Collodi, consegna a Felice Paggi una ricevuta firmata di suo pugno. Venduto Pinocchio per 500 lire, che diventeranno mille tre anni dopo, quando le copie pubblicate raddoppieranno la prima tiratura di tremila. Marche da bollo e timbri di registrazione su una leggerissima velina ingiallita e dai margini consumati che, come altri contratti firmati dallo scrittore e dal suo primo editore, il cavalier Felice Paggi, sono conservati nella vecchia limonaia di Villa La Loggia a Firenze, a pochi passi da dove, si dice, venne ordita la congiura dei Pazzi. È lì, nella sontuosa dimora dallo stile eclettico, costruita nel XV secolo sulla residenza di campagna di Brunetto Latini, che oggi ha sede il gruppo Giunti, erede della storica tradizione libraria fiorentina Paggi-Bemporad-Marzocco.
Per celebrare i 140 anni di vita del libro più tradotto al mondo dopo la Bibbia (260 versioni, l’ultima nota è in bengalese), l’editore, oltre a mettere in campo una serie di iniziative – tra cui un prezioso cofanetto con l’anastatica della prima edizione, e una serata a Firenze con letture di Lella Costa e accompagnamento musicale di Paolo Fresu – ha aperto il suo archivio a «la Lettura» mostrando documenti finora visti quasi esclusivamente dagli studiosi, che qui sono conservati accanto ai carteggi ereditati dai marchi storici che compongono il bouquet del gruppo Giunti: le corrispondenze con Edmondo De Amicis, Massimo d’Azeglio, Cavour, Giosue Carducci; le schede di lettura di Eugenio Montale; le lettere di Luigi Pirandello e Giovanni Verga e molto altro.
A Villa La Loggia c’è, oltre alla ricevuta del pagamento di Pinocchio, anche il contratto del Giannettino, il primo libro per ragazzi di Collodi. Due pagine (redatte «in doppio Originale da ritenersi uno per parte»), datate 10 agosto 1877, che siglano l’accordo con il libraio-editore-stampatore Paggi, per un libro che richiama, ribaltandone il senso, il titolo del testo d’istruzione più diffuso dell’Ottocento, il Giannetto di Luigi Alessandro Parravicini. In questo caso i dettagli sono ancora più chiari e, tra i vari punti elencati, si legge che «il sig. Cav. Carlo Lorenzini ha ceduto e cede al sig. Felice Paggi, accettante e stipulante, la proprietà letteraria in assoluta cessione e per sempre della sua opera, stando nella facoltà del suddetto sig. Paggi di pubblicarne tutte quelle edizioni che crederà opportuno di fare a seconda dello smercio della medesima». Mille lire per la prima edizione di 3.300 copie, a cui aggiungere 300 lire per ogni altra edizione che ci sarà, tenendo fermo che «se però piacesse al sig. Paggi di fare le edizioni di un numero maggiore di copie pagherà il compenso in proporzione dell’aumento».
Nella limonaia il responsabile dell’archivio Aldo Cecconi e Beatrice Fini, direttrice editoriale ragazzi del gruppo Giunti, fanno da guida tra carte, cimeli, illustrazioni originali e una ricca biblioteca pinocchiesca che copre più di un secolo di edizioni e coedizioni straniere, ma anche traduzioni trovate in giro per il mondo che farebbero la gioia dei tanti collezionisti. Come l’edizione Macmillan in inglese degli anni Venti, stampata in Italia e mandata negli Stati Uniti, i molti Pinokio dell’Est europeo, le versioni in mandarino, l’elegante edizione olandese del primo libro a colori illustrato da Attilio Mussino nel 1911. Ci sono tutte le pubblicazioni uscite sotto il cappello Paggi- Bemporad-Giunti (il santo Graal dei collezionisti naturalmente è la prima edizione illustrata da Mazzanti, difficilissima da trovare in buone condizioni) e anche molte di quelle poi uscite da altri marchi.
Il rapporto di Lorenzini con Paggi, e la sua fortuna nella letteratura per l’infanzia, inizia nel 1875, quando gli viene commissionata la traduzione dei Racconti delle fate di Charles Perrault, considerato un libro «ameno e al tempo stesso buono, moralmente giusto, rispetto a certe raccolte più crudeli, più forti», spiega Beatrice Fini. Fu il successo del Giannettino a inaugurare il fortunato filone di innovative opere didattiche che avevano come protagonisti bambini e che portarono i Paggi a inserire nella loro Biblioteca, nel 1883, anche Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino. Si trattava della revisione, «compiuta in modo affrettato e con una certa trascurataggine dall’autore» – come si nota nel volume Paggi e Bemporad editori per la scuola a cura di Carla Ida Salviati (Giunti, 2007) – del racconto pubblicato nel 1881 a puntate sul settimanale «Giornale per i bambini».
La modestia del compenso economico pattuito con i Paggi (le 500 lire versate per la prima edizione corrispondono a circa 2.200 euro di oggi) fa capire chiaramente che Collodi non si aspettava molto dalla sua invenzione. I disegni di Enrico Mazzanti, che già aveva illustrato gli altri libri di Collodi per Paggi, diedero al burattino la prima vera raffigurazione permettendo ai lettori di vedere ciò che il racconto descriveva, eppure la diffusione fu inizialmente lenta. Si sa che solo tre anni dopo la prima edizione, di tremila copie, esce la seconda, decisa probabilmente anche per fronteggiare la concorrenza del Cuore di Edmondo De Amicis che l’editore Treves aveva lanciato con una vasta campagna pubblicitaria. «I primi libri pubblicati da Paggi – nota Beatrice Fini – sono stati il Trattato delle malattie veneree, per rispondere a un’esigenza sociale, con le figure, perché a quei tempi leggeva meno del 40 per cento della popolazione, e Pinocchio. Come se, su un binario parallelo, si volesse far crescere la coscienza degli italiani». Ma la vera fortuna di Pinocchio inizia quando, nel 1889 la Paggi viene acquisita da Roberto Bemporad che con il figlio Enrico comincia a pensare a un catalogo e a strutturarlo sistematicamente.
Non ci sono, negli archivi di Giunti, gli originali manoscritti di Lorenzini perché, spiega Aldo Cecconi, «alla morte il fratello e Giuseppe Rigutini, letterato e lessicografo fiorentino, fecero un vaglio delle carte e provvidero a scartare tutto quel materiale che ritennero potesse compromettere il buon nome dello scrittore: lettere private, politiche e probabilmente anche qualche lettera all’editore». Parte dei pochi documenti collodiani sopravvissuti si trovano nella Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, dove, fino al 4 ottobre, si può vedere la mostra Pinocchio 140x140 che rilegge l’opera di Collodi attraverso le creazioni di due artisti toscani del Novecento, Sigfrido Bartolini e Venturino Venturi. Diverso da manoscritti e carteggi è il caso che riguarda le ricevute e i contratti conservati nell’archivio Giunti, alcuni trascritti anche in epoche successive, perché dopo la morte di Lorenzini «c’è un tema di contenziosi con gli eredi – spiega Cecconi – per il pagamento dei diritti. Ci furono varie vertenze legali e quei documenti venivano ben conservati e poi anche trascritti perché servivano nelle cause». Una nota sulla trascrizione della ricevuta di Pinocchio, per esempio, reca la scritta a matita: «Consegnato all’avvocato Luchini il 3/5/33».
Tra gli scaffali dell’archivio si può trovare il vecchio Pinocchio di legno con le fattezze ispirate ai disegni di Attilio Mussino, datato 1910 circa, originariamente collocato nell’ufficio di Enrico Bemporad in via del Proconsolo prima e in via Cavour poi. C’è il burattino realizzato su disegno di Giacomo Manzù; ci sono circa un centinaio tra bozzetti e tavole realizzate dagli illustratori che si sono succeduti nel compito di dare forme e colori a Pinocchio, considerato che ogni dieci anni circa Bemporad faceva illustrare la storia da una nuova mano. «A un certo punto – spiega Beatrice Fini – cambiano anche i numeri dei lettori. Bemporad è un editore di progetto e capisce quanto la parte iconica debba evolversi con l’evoluzione, sociale e di gusto, del Paese».
Un’opera, quella di re-illustrare il racconto, che Giunti, anche con Bompiani, ha proseguito negli anni affidandosi ad autori contemporanei. Nel 2018, per esempio, sono due gli artisti che «incontrano» Pinocchio: Ugo Nespolo e Lorenzo Mattotti. «Quando andai a trovare Nespolo per parlargli del progetto – dice Fini – scoprii che aveva già realizzato alcune tavole, così, per sua passione. Quell’anno, a distanza di pochi mesi, uscì la versione di Mattotti e portammo in libreria due produzioni completamente differenti delle Avventure». Attualmente Giunti ristampa Pinocchio ogni anno, facendo una rotazione tra la versione a colori di Mussino e l’anastatica di Mazzanti. Le vendite sono sempre significative: «Quando c’è una nuova edizione – spiega Fini – le tirature vanno dalle 10 mila copie in su. Il tascabile si ristampa due volte l’anno, tremila copie per volta, mentre i volumi per più piccoli, come il tridimensionale nel marchio Dami, tutto giocato sulle illustrazioni di Tony Wolf con poche righe di testo, in cinque lingue, ha tirature di 8-10 mila copie».
Pinocchio è stato fumetto, opera teatrale, musical, ma sopratutto è stato un grande faro di attrazione per il cinema, dalla versione animata di Disney a Luigi Comencini, da Roberto Benigni a Matteo Garrone e a Guillermo Del Toro. «È una lettura visuale, è come se fosse una sequenza di scene cinematografiche: si capisce perché un regista senta l’esigenza di trasporlo sullo schermo – dice Fini –. Non c’è collocazione storica, toponomastica, istituzionale. Ci sono teatranti in un dialogo serratissimo. E forse è il motivo per cui un libro come Cuore si è fermato all’Ottocento e Pinocchio è andato avanti. È modernissimo: c’è un padre single, impensabile a quei tempi; la scuola che viene sempre bypassata, non c’è la giustizia, non c’è la scienza, i gendarmi sono sbeffeggiati. Nonostante nella volontà dell’editore dovesse essere una storia che formava gli italiani, in realtà è come se Collodi avesse già intuito che la sensibilità degli italiani è talmente variegata che ognuno si deve affidare alla propria consapevolezza».
Diversi registi sono venuti qui a studiare l’iconografia del burattino. Aldo Cecconi ricorda bene Roberto Benigni che per il suo Pinocchio «si ispirò sopratutto alle immagini di Attilio Mussino e si vede in molti particolari, per esempio nella carrozza trainata dai topini». Matteo Garrone invece, nota Beatrice Fini, «faceva schizzi dei disegni, e prendeva appunti a latere. Era molto interessato all’ambientazione toscana soprattutto di Mazzanti e Chiostri, guardava sempre gli alberi, l’ulivo, la quercia». Anche Francis Ford Coppola, devoto collezionista di libri, si fermò qualche giorno a Firenze: «Veniva in archivio a ispezionare gli originali di Pinocchio per un film che aveva in testa e poi non realizzò», ricorda ancora Cecconi.
D’altronde, come ha scritto Italo Calvino, Pinocchio si è prestato «alla perpetua collaborazione del lettore, per essere analizzato e chiosato e smontato e rimontato». «La cosa che più mi ha colpito in questi 33 anni di lavoro in Giunti – dice Fini – sono le continue proposte editoriali di esordienti e autori affermati che vorrebbero proseguire Pinocchio, come se non fosse un’opera conclusa. Il primo fu lo stesso Collodi: la versione originaria della storia finisce con l’impiccagione di Pinocchio alla Quercia Grande; poi, quando decide di proseguire con altri venti capitoli, Collodi trova l’escamotage letterario della Fata che manda il falco a vedere se Pinocchio è vivo o morto». Il libro, a quel punto, termina con un ritorno alla realtà: il burattino che diventa bambino. «Eppure gli artisti e gli scrittori sentono il bisogno di andare avanti, come se fosse una storia di crescita non soltanto rispetto all’infanzia, ma anche rispetto alla consapevolezza, una presa di coscienza in cui la riabilitazione non viene calata dall’alto ma conquistata – commenta Fini – perché intorno non ci sono punti fermi. Quello che emerge anche dagli studiosi dell’edizione nazionale è la delusione di Collodi rispetto al Risorgimento, come se non credesse nella possibilità delle istituzioni di indicare una strada da seguire. Nel romanzo la giustizia fa il contrario di quello che Pinocchio si aspetta e lo imprigiona anche se è a lui che hanno rubato le monete; la scienza e la medicina ancora peggio, perché i medici che la bambina dai capelli turchini chiama quando lui è malato dicono ognuno una cosa diversa dall’altro e nessuno si prende la responsabilità di dire se è vivo. Insomma, l’unico che si assume la responsabilità di mantenere una promessa fatta è lo stesso Pinocchio».