Tuttolibri, 30 settembre 2023
Su rap, trap e drill
«Quest’estate al mare il figlio quindicenne di un amico mi ha sequestrato per ore. Voleva sapere vita, morte e miracoli dei trapper che ho intervistato. Mi ha detto che ero l’unico adulto che conosceva con cui poteva parlare di musica senza sentirsi ripetere che quella che ascolta lui è “solo m…”. Ecco, dobbiamo smettere di giudicare quello che non conosciamo. Ci sono artisti di 20 anni, ma anche di 16, magari cresciuti in contesti disagiati, che riescono a raccontare la loro vita mettendola in rima, usando la scrittura in modo innovativo. In tutto questo c’è del valore, a volte molto valore. Bisognerebbe istituire il premio Strega della trap…». Giovanni Robertini beve un caffè godendosi il sole milanese di settembre seduto ai tavolini di Otto in via Paolo Sarpi, alternando pensieri e nuvolette di fumo elettronico. Autore televisivo, saggista, ex direttore di Rolling Stone e di Linus, 47 anni, è al suo secondo romanzo. Con il primo, La solitudine di Matteo, ha indagato la figura di Matteo Salvini partendo dal rapporto conflittuale fra quello che oggi è il segretario della Lega e la borghesia di sinistra che popolava le aule del liceo che entrambi hanno frequentato, il classico Manzoni di Milano. Con Morte di un trapper, invece, va alla scoperta delle radici culturali, sociali e psicologiche della trap e della drill, i generi musicali eredi dell’hip hop.Da Salvini alla trap è un bel salto…«La verità è che mi ero stancato di leggere tanta autofiction, soprattutto italiana, che parla di vite tutto sommato un po’ noiose. Scritte benissimo, per carità, ma cercavo qualcosa di diverso. Io stesso con La solitudine di Matteo ci avevo messo dentro un po’ di autofiction, anche se non ero io il protagonista. Avevo voglia di studiare un mondo che mi incuriosiva e mi appassionava. Lavorando per Rolling Stone ho avuto la fortuna di incontrare tutti i rapper italiani, dalle vecchie glorie agli esordienti come Rondo e Paky, raccogliendo un sacco di informazioni e soprattutto studiando il loro linguaggio».In effetti “Morte di un trapper” è un po’ anche un aggiornamento di “La luna sotto casa”, il saggio di Primo Moroni e John Martin dedicato alle sottoculture giovanili…«In Inghilterra ci sono cattedre universitarie dedicate a temi come l’invenzione della gioventù, nei corsi di “cultural studies” i docenti si occupano di trap e drill, di rave e sottoculture. Penso a gente come Mark Fisher. Da noi invece, a parte il lavoro meritorio dei ragazzi di Nero Not e Timeo, al massimo esce un editoriale di Libero sull’ennesima rissa in piazza Gae Aulenti, il cui unico risultato invece che provare a capire è quello di produrre una doppia criminalizzazione. I populisti trasformano gli adolescenti, magari perché hanno un Daspo o la pelle scura, in un bersaglio politico».È innegabile però che fra violenza e trap ci sia una doppia connessione: la violenza viene raccontata nei testi e poi vissuta negli scontri fra crew rivali, nelle rapine delle baby gang, negli scippi. Come mai?«Nel mondo trap le competizioni e le azioni criminali servono a guadagnare “credibilità di strada”. Fa parte del principio di autoaffermazione. Per questo, ad esempio, le risse vengono riprese con il telefonino anche se poi questo ti fa finire in galera. Il mio non vuole essere un libro edificante, non contiene storie con una morale e non prevede alcuna rinascita. Si limita a fare una fotografia molto romanzata. Se poi qualcuno mi chiede come si affronta il problema delle baby gang o della microcriminalità giovanile l’unica cosa che mi sento di dire è di andare a chiedere a gente come don Burgio, che predica la necessità di intercettare questi ragazzi, di fare educazione di strada e di metterci un po’ di cuore. Tutto il contrario, insomma, dell’ennesimo decreto Caivano di Salvini and company».Tutti oggi parlano dei «maranza». Chi sono davvero?«Come tutte le sottoculture giovanili anche quella dei maranza sfugge alle definizioni. Il look è la cosa più facile da descrivere: tuta, borsello contraffatto e Nike TN. Una divisa da operai della tamarritudine. Spesso si associa il termine alle seconde generazioni di immigrati, ma in realtà anche molti italiani si vestono così. Poi c’è da considerare che a livello sociale il termine ha una connotazione negativa: ma anche qui è sbagliato collegare automaticamente un certo modo di vestire alla propensione a delinquere. La cosa più interessante da indagare sono i motivi per cui anche un ragazzino borghese del centro vuole vestirsi come uno della periferia, e non viceversa».La trap ha allargato la distanza fra generazioni?«Più che la trap l’hanno allargata i social e la possibilità di avere un telefonino in tasca. La trap da fa cassa di risonanza, racconta questa distanza che diventa ogni giorno più forte».Il protagonista, X, è un rapper della “vecchia scuola”. Perché l’ha scelto?«Quello del rap è un mondo che corre veloce. In Italia è esploso tardi rispetto a Paesi come la Francia, oggi però su dieci artisti in classifica nove sono trapper o rapper. Io avevo bisogno di un personaggio che non fosse per forza positivo, ma che allo stesso tempo si confrontasse con il mondo di oggi con più strumenti di un ragazzino. X è un quarantenne, un coetaneo di gente come i Club Dogo, Marracash o Fabri Fibra, i cosiddetti “padri nobili”. È uno che il successo l’ha avuto e che per caso è ricascato nel mondo della trap di oggi. Un mondo di cui, comunque, conosce vocabolario, codici e lingua. Non è un romanzo di formazione, X è già formato ma nonostante questo può dialogare in maniera verosimile, capendone sfumature che molti genitori di ragazzini che ascoltano la trap non capiscono. In qualche modo fa da anello di congiunzione».Il set di questo mondo però è cambiato moltissimo: prima c’erano i centri sociali, oggi i profili social...«Quando X era ragazzino a Milano c’erano la Pergola, Garigliano, Conchetta e il Leoncavallo. Tutti posti dove divertirsi e dove una birra costava meno di cinque euro. Oggi il rap è entrato nel mercato, si confronta con i brand della moda, impara a conoscere la ricchezza e a desiderarla. Ma questa ostentazione e questo consumismo non li hanno creati i rapper. Sono figli di anni di edonismo e di tv berlusconiane. Anzi, credo che fra un po’ tutti questi trapper finiranno dall’analista, perché dopo due anni faticano a mantenere la carriera e il tenore di vita che hanno sperimentato».Uno come Fedez sembra resistere. O no?«Fedez realizza uno scambio con gli artisti emergenti : li invita al suo evento in piazza Duomo per mantenere una credibilità agli occhi dei più giovani, e in cambio restituisce popolarità e un passaggio su Canale 5».Qual è la differenza fra rap e trap?«La principale, per me, è la rapidità con cui oggi si passa dall’esordio con qualche traccia su You Tube a riempire un palazzetto. C’è un mercato, per certi versi anche una bolla: i discografici sono entrati braccia e mani in questo mondo e ne regolano il flusso. Ci sono dietro soldi, tanti soldi, mentre prima era qualcosa di alternativo, qualcosa che ti andavi a scegliere. Se vuoi dialogare con un adolescente devi ascoltare la trap, ma pure i compagni di scuola di mia figlia che ha 10 anni si salutano con la frase “hey bro”. La trap è un iper-oggetto, si è presa una fetta di immaginario molto ampia: in una città come Milano è ovunque».E la drill?«È un ritorno, almeno estetico, alle origini. Diciamo che dall’orologione d’oro di Gucci si è tornati allo street wear alla portata di tutti. Central Cee, il più importante trapper inglese, veste Kipsta, un marchio che si trova a 9,90 da Decathlon. E poi cambiano le sonorità, che comunque arrivano in Italia dall’estero: la trap nasce ad Atlanta, la drill a Chicago ed esplode nel Regno Unito».Torniamo a Milano. Il romanzo descrive una città che è sempre più spaccata in due: da una parte i sempre più ricchi, dall’altra i sempre più poveri. La trap fa davvero da collante o è solo un’illusione?«Il protagonista cita L’odio di Kassovitz e la scena in cui tre ragazzi delle banlieu guidati da Vincent Cassel piombano in una galleria d’arte vestiti di nero con la felpa col cappuccio e dentro trovano le signore in abito lungo e gli uomini eleganti. Oggi a Rozzano e nelle gallerie d’arte la gente è vestita allo stesso modo. E questo perché lo street style è diventato moda, mercato, e nell’ostentazione del turboconsumismo avere la scarpa da 600 euro vale sia per il ragazzetto borghese che per il quattordicenne della periferia. Ma è una questione puramente estetica. Nel romanzo lo spiega bene Mimmo, che di lavoro frigge patatine, che in pochi secondi calcola quante ore di lavoro ci metterebbe lui per comprarsi le scarpe da 600 euro e giunge alla conclusione che tirare fuori un coltello e prendersele in definitiva è molto più semplice».E la politica in tutto questo? È come se non esistesse…«La politica è quasi completamente assente dall’orizzonte dei trapper. A parte Baby Gang che da ex carcerato – ora è in comunità – ha fatto un endorsement per Silvio Berlusconi in cui vedeva un paladino delle battaglie garantiste. Oppure Tedua, che in alcune interviste parla della cultura di sinistra genovese, chiarendo però di non voler aver nulla a che fare con partiti come il Pd. La sinistra, se vuole davvero interrogarsi su ciò che succede nel tessuto urbano italiano, dovrebbe abbandonare il suo insopportabile snobismo che spesso arriva ai confini dell’ignoranza. Se qualcuno vuole suggerimenti per una playlist con la quale cominciare sono qui».