Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  settembre 29 Venerdì calendario

“PAOLO MI DISSE CHE NON SAREBBE STATA LA MAFIA A UCCIDERLO, MA I SUOI COLLEGHI” – FILIPPO FACCI, PER MENARE SUI GIUDICI, RIPRENDE LA FRASE CHE AGNESE PIRAINO, LA VEDOVA DI BORSELLINO, DISSE AI PM: “QUESTA ELEMENTARE ASSERZIONE, SEMPRE TENUTA SOTTOTRACCIA DALLA MAGISTRATURA SICILIANA E DAI CRONISTI MAFIOLOGI, SI INCASTRA NELLE VERITÀ ORMAI ASSODATE SULLE VERE RAGIONI DEGLI ASSASSINII DI FALCONE E BORSELLINO: OSSIA LE LORO SCOPERTE SU QUEL DOSSIER “MAFIA E APPALTI” CHE ANTICIPAVA MANI PULITE E…” -

Per qualche ragione, una frase resa a verbale il 18 agosto 2009 da Agnese Piraino, moglie di Paolo Borsellino, è sempre stata riportata superficialmente così: «Paolo mi disse che non sarebbe stata la mafia ad ucciderlo». Il pensiero andava alla classe politica o ai servizi segreti o a qualche potere oscuro, ma in realtà la frase testuale che la signora attribuì al marito, pronunciata pochi giorni prima della strage di via D'Amelio, fu questa: «Mi uccideranno ma non sarà una vendetta della mafia. La mafia non si vendica.

Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno i miei colleghi e altri». La signora Piraino, morta dieci anni fa, ripeté la stessa frase nel gennaio 2010 ai pm di Caltanissetta. Disse: i miei colleghi. Ossia dei magistrati.

Questa elementare asserzione, sempre tenuta sottotraccia dalla magistratura siciliana e dai cronisti mafiologi che l'hanno servita, si incastra perfettamente nelle verità ormai assodate sulle vere ragioni degli assassinii di Falcone e Borsellino: ossia le loro scoperte su quel dossier “Mafia e appalti” che anticipava l'inchiesta Mani pulite ed esplicitava le dimensioni nazionali di un “tavolino” tra politica e imprenditoria e Cosa nostra. Borsellino, nei pochi giorni di vita che gli rimasero dopo la strage di via Capaci, ne parlò anche con Antonio Di Pietro (25 maggio 1992) dopo che l'aveva già fatto Falcone, e va rilevato che Di Pietro lo fece presente al processo sulla “trattativa Stato-mafia” solo per richiesta della difesa di Mario Mori, anche perché il suo esame era stato ritenuto superfluo dai giudici di primo grado.

L'attenzione di Borsellino per l'informativa “Mafia e appalti” fatta dal Ros di Mario Mori è stata confermata anche da molti suoi colleghi di Palermo: tra questi Vittorio Aliquò, Gioacchino Natoli e Leonardo Guarnotta: «Borsellino - ha detto quest'ultimo, - riteneva che l'uccisione di Falcone fosse dovuta a un intreccio perverso tra Cosa Nostra, mondo imprenditoriale, mondo economico, mondo politico... tutti avevano interesse a che Falcone fosse eliminato».

Questo si legge (o leggerà) anche nel libro “Ho difeso la Repubblica” scritto da Basilio Milio, avvocato del fondatore dei Ros Mario Mori (nelle librerie nel novembre prossimo) che però, a proposito di magistrati, rivela anche altro: racconta che un personaggio di grande caratura mafiosa, Pino Lipari, un geometra vicino a Riina ea Provenzano e legato ad Angelo Siino, detto “il ministro dei lavori pubblici di Cosa Nostra”, disse che l'informativa “Mafia e appalti” gli era stata passata dall'allora procuratore capo Pietro Giammanco.

Angelo Siino precisò che Mario D'Acquisto, onorevole democristiano, era l'alter ego dell'altro onorevole democristiano Salvo Lima, compromesso con Cosa nostra e da essa trucidato nel 1992, e che col procuratore Pietro Giammanco «erano molto amici». Sempre nel libro di Basilio Milio si apprende di un'informativa della Dia (Direzione investigativa antimafia) secondo la quale il procuratore di Palermo era cugino in primo grado di Nicolò Giammanco, capo dell'ufficio tecnico di Bagheria, il quale era a sua volta padre di Vincenzo Giammanco, arrestato e condannato quale socio e prestanome del latitante corleonese: nella società Italcostruzioni di Vincenzo Giammanco, infatti, quest'ultimo aveva il 75 per cento mentre il restante 25 era di Saveria Palazzolo, moglie di Bernardo Provenzano. Il resto è storia, anche se è una storia complicata e mai ufficializzata dal giornalismo italiano, occupato a inseguire la magistratura anche in tutti i depistaggi dalla verità sulle stragi del 1992.

Si torna a Giovanni Falcone, bocciato come capo dell'ufficio istruzioni di Palermo, come membro del Csm e come procuratore capo; il nuovo giudice istruttore, Antonino Meli, lo aveva umiliato con la decisione di affidargli indagini bagatellari o slegate da cose di mafia, mentre il nuovo procuratore capo Pietro Giammanco, apertamente andreottiano, aveva spezzettato tutte le indagini che Falcone aveva fatto con Borsellino. […] l'informativa “Mafia e appalti”, che da principio era stata consegnata dai Ros a Giovanni Falcone e non al procuratore capo Pietro Giammanco, del quale l'allora colonnello Mario Mori non si fidava.

Da qui, per la prima volta, si era sviluppata un'indagine sulle turbative realizzate nelle gare degli appalti pubblici partendo dagli interessi mafiosi. Emerse il fatto che dei tre protagonisti cointeressati (mafia, imprenditoria e politica) le ultime due, imprenditoria e politica, non erano vittime, ma partecipi dell'attività criminosa, concorrendo alla spartizione dei proventi illeciti. Ebbene: Falcone, il 20 febbraio 1991, portò l'informativa a Pietro Giammanco e da allora non se ne seppe più nulla.

Il procuratore Guido Lo Forte, braccio destro di Giammanco, ha confermato nella sede processuale che Giammanco chiude l'informativa in cassaforte. Pochi giorni dopo, il 15 marzo 1991, Falcone ne riparlò durante un convegno al castello Utveggio di Palermo: parlò di intreccio tra mafia e imprenditoria e politica e disse «La mafia è entrata in Borsa». Falcone aveva compreso che dietro la quotazione in Borsa del gruppo Ferruzzi c'era Cosa nostra.

In seguito, chissà come, l'informativa “Mafia e appalti” lasciò la cassaforte del procuratore Giammanco e prese a circolare fuori dalla procura. Il magistrato Antonio Ingroia parlerà apertamente del legame tra Pietro Giammanco e Salvo Lima: «Paolo mi disse testualmente: “Giammanco è un uomo di Lima”. Affermazione per la quale io rimasi turbato, anche per quello che dell'onorevole Lima si era detto per anni a Palermo». Ingroia non sarà il solo magistrato a soffermarsi sui rapporti politici di Giammanco con Salvo Lima e, per esempio, con l'ex presidente della Regione Mario D'Acquisto. Dirà Alfredo Morvillo, cognato di Falcone: «Era noto a tutti che Giammanco era amico del noto onorevole D'Acquisto, uomo abbastanza al centro dell'attenzione quando si affrontano argomenti come politica e mafia».

Non risulterà superato neanche trent'anni dopo: è la ragione per cui una cannibalesca avversione tra la Procura di Palermo e il Ros dei carabinieri, incompresa dai più, sfocerà in inconsistenti e inutili processi della prima contro il secondo, a dispetto di battaglie contro la mafia vinte forse più dal secondo e un po' meno dai primi. […]