Corriere della Sera, 29 settembre 2023
Intervista a Ottavio Bianchi
Per i titoli dei giornali era il «Bianchi ghiacciato». Per Gianni Mura era un tipo «come se gli fosse nevicato dentro». Negli anni del suo grandissimo Napoli era «il sergente di ferro». Al di là delle definizioni, capaci comunque di restituire la sintesi di stile, grinta, lealtà e riservatezza del «personaggio», sempre che sia ammesso definirlo così, quella di Ottavio Bianchi, nato a Brescia nel ‘43 e da mezzo secolo bergamasco d’adozione, è una delle più straordinarie storie del nostro calcio.
Allevato in famiglia spartanamente, «a pane e latte», tanto da vedere il primo ristorante della sua vita ai tempi del debutto nelle Rondinelle agli ordini dell’austriaco Neschy, e cresciuto calcisticamente respirando a pieni polmoni l’«aria di canfora» degli spogliatoi, «il signor Bianchi», come teneva a essere chiamato, ha incrociato tutti i più grandi. Da calciatore del Napoli (era un centrocampista dai piedi buoni) ha giocato con gente come Sivori, Altafini, Zoff; nel Milan di Rocco, con Gianni Rivera. Nel Cagliari, con Riva. E come avversario ha avuto Pelé. È tutto raccontato da lui stesso nel libro autobiografico che ha scritto, a cuore davvero aperto, con la figlia giornalista Camilla, «Sopra il vulcano. Il campo, lo scudetto, la vita» (Baldini e Castoldi, 2020). Con prefazione proprio di Mura. Che oggi Bianchi ricorda così: «Era il top. Venne a Napoli a intervistarmi. Rimasi colpito dalle sue domande azzeccatissime. Mi disse: “Prima di venire, ho letto tutto su di lei, sono stato un mese in archivio”».
Da allenatore, Bianchi si inventò il Como-rivelazione di Hansi Mueller, salvò l’Avellino (dove ridiede vita e futuro a Ramon Diaz, poi stella di Fiorentina e Inter). Esperienze forse sbiadite dal tempo, ingiustamente. Poi, certo, guidò il Napoli di Maradona, quello del primo scudetto, avendo dietro, e accanto, dirigenti del calibro di Italo Allodi e Pierpaolo Marino. Il suo finale di partita fu con Inter, Roma e Fiorentina. Quanto all’Atalanta della «sua» Bergamo, è presente in entrambe le sue vite: quella da calciatore, ai primi anni ‘70, e quella da allenatore, ai primi anni ‘80. La sconfisse, alla guida dei partenopei, nella finale di Coppa Italia del 1987.
Lo abbiamo raggiunto al telefono mentre era ancora in vacanza a Vietri sul Mare, nell’amatissima Costiera Amalfitana: «Praticamente, casa mia». Il 22 settembre alle 20.30, alla Sala della comunità di Osio Sotto, per il Sapiens Festival, terrà un incontro dal titolo: «Ottavio Bianchi, il mister che ha domato Maradona (ma come ha fatto?)».
Signor Bianchi, in «Sopra il Vulcano» scrive che il problema non è allenare Maradona, ma quelli che si credono Maradona. Cosa c’è da aggiungere sul suo rapporto con il Diez?
«Purtroppo non molto. Sa, tutti romanzano. Credo che la cosa migliore che si possa dire su di lui sia una frase che mi ha detto il suo preparatore atletico Fernando Signorini, uno dei pochi uomini di calcio che ancora sento. Signorini ha detto: “Con Diego faccio il giro del mondo. Con Maradona non faccio nemmeno il giro dell’isolato”. Una frase bellissima».
È la differenza fra l’uomo e il suo personaggio.
«Io ho conosciuto Diego, per fortuna. Era veramente un ragazzo splendido. Veniva dal Barrio di Buenos Aires, col pallone fra i piedi era la persona più felice del mondo. Non l’ho mai sentito rimproverare un compagno di squadra. Sì, era splendido».
Kusturica girò un eccezionale documentario-intervista sul Pibe. L’ha visto?
«No. Varie volte, fra l’altro, mi hanno chiesto di partecipare come testimone a questa o ad altre produzioni, ora non ricordo. Ma ho sempre detto di no. Io Diego l’ho visto dal di dentro, e voglio ricordarlo così. Da Maradona sono sempre stato distante».
Lei gestì lui e il Napoli con un misto di duttilità e fermezza, non è così?
«La mia gestione sportiva non era molto flessibile. Però mi adattavo all’ambiente. Al Como avevo una squadra giovane che per me si sarebbe allenata anche di notte. Totale disponibilità. Se avessi fatto così a Napoli, mi avrebbero mangiato».
Questo discorso richiama alla mente la questione del confine fra autoritarismo e autorevolezza. Gasperini è stato accusato da due suoi ex giocatori di essere un dittatore, di instaurare un regime della paura. Ha seguito la vicenda?
«Solo marginalmente. Di questi temi si potrebbe discutere a lungo. L’allenatore deve gestire tante personalità e deve risponderne alla società. Se quelli che oggi lo criticano faranno gli allenatori, allora capiranno. Non conosco Gasperini. Ma la sua gestione dell’Atalanta è stata davvero ottima. Se sia un dittatore democratico, come lo ero io, o un dittatore-dittatore, non lo so, del resto non importa tanto. L’entità psicologica ed economica dei calciatori oggi è enorme, gestirli difficilissimo. E poi che si parli “dopo” a me non piace. Chi parla “al momento” merita più attenzione».
Di quelli che «parlano al momento» lei ha una certa esperienza. Fu quasi drammatico quando Garella, davanti ai microfoni, lesse il comunicato dei giocatori del Napoli contro di lei. Come potè uscirne? Dopo vinceste pure la Coppa Uefa.
«Non c’era bisogno di “uscirne”. La porta era aperta. Chi entra, fa quello che dico io. Se no, se ne va. L’allenatore è responsabile di tutto e di tutti. E deve decidere».
Pierpaolo Marino, che fu un suo compagno di avventura all’Avellino e al Napoli, ha predetto per l’Atalanta grandi cose. Intervistato dal «Corriere», ha detto che potrebbe essere la sorpresa del campionato. È d’accordo?
«Per rispondere bisognerebbe conoscere bene i giocatori. Di sicuro, da squadra provinciale è diventata squadra di élite. Merito anche dell’assetto societario, naturalmente, e dei tifosi che tirano tutti dalla stessa parte. Io seguo poco il campionato, attualmente, e conosco poco i nuovi acquisti. Del resto, chi può dire di conoscerli? Io, almeno, ho il coraggio di dirlo. Quanti, l’anno scorso, conoscevano il georgiano del Napoli? L’unica cosa certa è che i migliori del mondo non vengono più da noi. Quelli che le nostre società comprano sono giocatori di terza o quarta fascia».
L’Arabia ha sconvolto il calciomercato.
«Quando dico “ai miei tempi” evidenzio ancor più la mia età. Ma io non avevo né avvocati né procuratori. I giocatori oggi sono diventati aziende ambulanti che gestiscono capitali enormi. Io lascerei andare in Arabia chi vuole, e punterei sui vivai. Per qualche anno soffriremmo. Poi detteremmo legge».
Ma c’è un calciatore che la diverte, che segue?
«Il Napoli dell’anno scorso mi ha divertito moltissimo. È stato un campionato bulgaro, come Merckx che correva da solo. Ho seguito con grande piacere Kvaratshkelia, appunto, e Osimhen».