Corriere della Sera, 28 settembre 2023
Il Vajont 60 anni dopo
«Venga qua, che adesso portano delle bottiglie di raboso vecchio di trent’anni. Fra l’altro deve ancora raccontarci del Vajont, dove so che lei è stato in vacanza». Vacanza! Gian Antonio Cibotto non avrebbe perdonato mai all’anonimo conte quell’indecente spiritosaggine, lasciata cadere così, con acida nonchalance, tra i distratti invitati alla giornata di caccia alla lepre, a tutto interessati tranne che a qualsiasi accenno a qualcosa di serio.
Bruciava come sale sulla ferita, per lui, nel cicaleccio di quelle ore di banalità campestri, il ricordo di quei giorni durissimi a Longarone: «L’occhio si perde sgomento su un paesaggio lunare, dove ogni traccia d’uomo è stata cancellata. Lungo la striscia che segna il perimetro entro il quale si è avventata l’acqua della diga, mischiati al fango, ai sassi, ai detriti, ai rottami, ai mattoni delle case sbriciolate, alle masserizie distrutte, affiorano decine di cadaveri. Addirittura più corpi di uomini, donne e bambini, che carogne di animali. Tutti nudi, senza un filo di vestito o uno straccio di camicia, quasi a significare che all’altro mondo non si può portare nulla. Insieme alla nudità, fa spicco il biancore della pelle, che vagamente ricorda l’alabastro delle antiche cattedrali. Hanno tutti delle ferite alla testa, alle braccia e alle gambe, segno che prima di essere abbandonati dalla corrente sul greto, o in mezzo al pietrame della riva, sono andati a sbattere contro qualche ostacolo…».
E continuò a bruciare, quella ferita, per anni. In doloroso contrasto con la vita di tutti i giorni. Di qua la quotidianità del lavoro al «Giornale d’Italia» di Roma, la frequentazione dei circoli che ruotavano intorno alla Fiera Letteraria del poeta Vincenzo Cardarelli e del drammaturgo Diego Fabbri, la vocazione alla critica teatrale e al giornalismo culturale che il giovane polesano aveva scelto in contrapposizione con le speranze del padre Carlo, deputato democristiano, che l’avrebbe voluto avvocato e mai avrebbe immaginato come il figlio si sarebbe spinto a scrivere un libro di beffarda ironia come La coda del parroco che tanti guai elettorali gli avrebbe tirato addosso… Di là le immagini che gli erano rimaste inchiodate nella testa dell’immensa tragedia tra le valli bellunesi dove era stato scaraventato controvoglia, nell’ottobre 1963 dal caporedattore del giornale: «“Senti, poeta delle acque,” inizia scherzoso, “deve essere accaduto un casino dalle tue parti. Pare sia saltata una diga, e i morti sarebbero migliaia”». Sapeva bene, quel caporedattore, che Gian Antonio Cibotto aveva dato il meglio di sé pochi anni prima, praticamente all’esordio, scrivendo pagine formidabili sull’alluvione del Polesine del novembre 1951. Pagine poi raccolte nelle preziose Cronache dell’alluvione, elogiate sul «Corriere della Sera» dal mitico Eugenio Montale: «Un libro piccolo di mole ma intenso e senza retorica».
Sgomento
«L’occhio si perde
su un paesaggio lunare,
dove ogni traccia d’uomo
è stata cancellata»
Sbattuto su quella nuova frontiera montana d’acqua assassina, che Alberto D’Amico avrebbe abbinato nella canzone Acqua alla catastrofe del Delta padano («Xe sta ’na note che ’l Signor / ga avudo un palpito de cuor / el monte Toc se ga spaca’, / el lago in cielo xe rivà»), Gian Antonio Cibotto non deluse. Ma patì così tanto il nuovo trauma narrando di «camion carichi di bare costruite per accogliere bambini» e penosi tentativi di appropriarsi nel fango informe di pezzi di corpi da seppellire («La gente si portava via la testa, un braccio, un piede, nascondendoli per paura che glieli sequestrassimo. Gridavano tutti è mio, affermando di aver riconosciuto un particolare, un segno, una catenina, mentre in quelle condizioni era impossibile distinguere nulla…»), di rabbiose invettive verso i colpevoli del disastro e insieme di stralunate pretese tecno-burocratiche di non chiamare la frana col termine «frana» ma «traslazione di montagna», che alla fine non vide l’ora di venirsene via. Via da Longarone, dal fango, dal puzzo di morte, dal dolore. Via.
Per quasi vent’anni quelle cronache sul Vajont rimasero lì, dimenticate. Sepolte sotto il fango e i fascicoli processuali. Rimosse. Ma conficcate nella memoria di Cibotto come il luccichio d’una collanina intravista un giorno sulle lingue sabbiose «dove le piene autunnali hanno scaraventato una foresta di tronchi d’albero e di rami levigati dalla corrente»: «Nello scavalcare un rigagnolo soffocato dal muschio, rosicchiato dalle formiche che vanno e vengono in un frenetico incrociarsi, sopra uno strato di limo vedo il braccio di un bambino che stringe nella mano una palla…» Solo un incubo notturno? Mah… Fatto sta che quasi due decenni dopo la catastrofe, nel 1982, l’anno prima che uscisse finalmente Sulla pelle viva di Tina Merlin sulle responsabilità enormi di chi aveva prima ignorato i rischi e poi coperto gli errori, le omissioni, le complicità che avevano reso ancora più insopportabile il bilancio del cataclisma «naturale», quelle cronache vennero infine riprese dallo scrittore polesano nel libro Stramalora, edito da Marsilio. Salutate sul «Corriere» da un omaggio di Carlo Bo come «pagine nate dalla cronaca e sulla spinta del lavoro di giornalista che a distanza di vent’anni non hanno perso nulla del loro vigore e hanno conservato la grazia della restituzione poetica. In effetti il cronista Cibotto a un certo punto lascia posto al narratore puro e stabilisce così un sistema di vasi comunicanti molto curioso e per molti aspetti di nuovo». In poche righe a margine, riprese da questa riedizione de La nave di Teseo che esce in occasione dei sessant’anni dalla catastrofe e della giornata di memoria collettiva Vajonts ideata da Marco Paolini in oltre cento teatri italiani, lo stesso Cibotto spiegava di volersi chiamar fuori da ogni pretesa di «verità» scientifica, politica, giudiziaria: «Il Vajont è stato un’invenzione dei giornali. Perciò “andare alla cerca” in queste pagine di libera fantasia d’una creduta realtà, è inutile. Non ingannino i nomi di località e personaggi: sono puramente occasionali. Coincidenze legate alla bizzarria della sorte che alle volte fa scambiare per testimonianza il racconto di un brutto sogno».
Un brutto sogno narrato per dare sfogo a un senso di colpa che per anni era mancato in buona parte dell’Italia che aveva visto quell’apocalisse tra i monti con quasi duemila morti come una cosa lontana lontana… Destinata a finire, tra un brut e una mandorla salata, nei ricordi di salotto: «Il pranzo da Giocondo!! (...) La sera dopo il disastro siamo andati con Mario Pannunzio e altri amici da Giocondo Protti, che aveva comprato centomila lire di tartufi. Ci eravamo appena seduti a tavola quando è arrivata una telefonata di sua moglie che gli annunciava la scomparsa della sua casa avita, sommersa dall’onda del lago. Mentre noi restavamo con le forchette a mezz’aria, incerti sull’atteggiamento da prendere, Giocondo stravolto dal dolore non sapendo cosa dire si è messo ad urlare: “Gratta del tartufo”!».