La Stampa, 27 settembre 2023
Quel che resta del compromesso storico
Cinquant’anni fa, il 28 settembre del 1973, il segretario generale del Partito comunista italiano Enrico Berlinguer pubblicava su Rinascita il primo di tre articoli nei quali si chiedeva quali insegnamenti potessero trarsi in Italia dal colpo di Stato cileno del generale Pinochet. Dichiarando «sempre più urgente e maturo che si giunga a quello che può essere definito il nuovo grande “compromesso storico” tra le forze che raccolgono e rappresentano la grande maggioranza del popolo italiano», Berlinguer dava avvio a un processo politico dal quale, nel giro di qualche anno, sarebbe scaturita la stagione della solidarietà nazionale: il sostegno comunista a due governi monocolore democristiani presieduti da Giulio Andreotti, prima attraverso l’astensione e poi, anche sull’onda emotiva del rapimento Moro, con un voto parlamentare favorevole.
Ma che cosa ha rappresentato, nella storia politica della Repubblica italiana, la solidarietà nazionale? Che cosa può dirsi che abbia lasciato, mezzo secolo dopo la pubblicazione degli articoli che ne sono stati l’incunabolo?
La convergenza fra la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista rappresenta il punto culminante tanto dell’anomalia democratica italiana quanto di una delle logiche politiche che sono iscritte nel Dna della Repubblica (una delle logiche, non l’unica logica). Quella logica, ispirata da un’interpretazione radicale dell’antifascismo, prevede che la democrazia italiana – avendo i social-comunisti svolto un ruolo così importante nella sua genesi, dalla Resistenza alla Costituente – sia necessariamente e naturalmente caratterizzata da una dinamica levogira: sia rigidamente chiusa a destra e possa muoversi soltanto verso sinistra. Considera gli anni più duri della Guerra Fredda, segnati dal centrismo, una sorta di anomalia, una parentesi reazionaria che poteva e doveva chiudersi al più presto. E ritiene invece che la Repubblica abbia cominciato a rimettersi in carreggiata fra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta, quando, con la nascita del centro sinistra, i socialisti sono stati infine ammessi nella “stanza dei bottoni”. L’apertura ai comunisti, ovvero la compiuta ricostituzione dell’alleanza resistenziale e costituente delle forze politiche popolari e antifasciste, rappresenta infine per questa logica l’ultima e naturale tappa evolutiva dell’ordinamento repubblicano.
Il secondo dopoguerra, d’altra parte, non è stato segnato soltanto dall’antifascismo, ma pure dall’anticomunismo. Il nesso che ha legato il principale partito d’opposizione all’Unione Sovietica, e che coi decenni si è via via indebolito ma fino al 1989 non è stato mai troncato, e la conseguente, inevitabile esclusione dei comunisti dal potere, hanno senz’altro rappresentato la radice prima dell’anomalia italiana, della conformazione disfunzionale della nostra democrazia. La solidarietà nazionale è stata anche un frutto di quell’anomalia, oltre che un tentativo di superarla facendo forza su una situazione d’emergenza.
I due protagonisti dell’operazione, Enrico Berlinguer e Aldo Moro, non pensavano il superamento dell’anomalia nella stessa maniera. Moro, a quel che sembra, immaginava che la solidarietà nazionale potesse rappresentare un primissimo passo verso la legittimazione del Partito comunista, anche se i tempi e modi nei quali l’operazione sarebbe giunta a compimento restavano quanto mai nebulosi. La legittimazione del Pci avrebbe finalmente reso l’Italia una democrazia compiuta, consentendo l’alternarsi al potere di schieramenti politici contrapposti. Per Berlinguer invece – come dimostrano con chiarezza, fra l’altro, proprio i suoi articoli su Rinascita – il comunismo doveva restare irriducibile al sistema capitalistico occidentale. La sua speranza era che l’evoluzione della situazione internazionale, ossia l’avanzare della distensione fra i blocchi, consentisse di trasformare la convergenza fra Democrazia cristiana e Partito comunista da emergenziale e temporanea in permanente, aprendo ai comunisti le porte del potere malgrado la loro persistente estraneità al mondo valoriale nordatlantico. Era in buona sostanza la riproposizione aggiornata della lezione togliattiana sulla democrazia progressiva: in un Paese del blocco occidentale i comunisti, non potendo governare da soli, dovevano puntare a una larghissima convergenza fra tutti i partiti di massa.
Con l’avvio della cosiddetta “seconda” Guerra Fredda, l’invasione sovietica dell’Afghanistan e la crisi degli euromissili, e più in generale col profondo mutamento di Zeitgeist che segna la fine degli anni Settanta, tanto la via morotea verso il superamento dell’anomalia italiana quanto quella di Berlinguer si chiudono. Il Partito comunista si trova risospinto ai margini del sistema, impossibilitato a partecipare in una larga convergenza di democrazia progressiva, figurarsi a governare da solo in una democrazia dell’alternanza. La solidarietà nazionale dimostra così di non poter essere che una parentesi emergenziale: per quanto utile essa sia stata ad affrontare una congiuntura storica assai accidentata, il suo compito si è esaurito. Mancano le condizioni perché l’emergenziale si trasformi in permanente, in una forma o nell’altra, e la Repubblica possa infine superare la condizione di anomalia democratica che l’affligge fin dalla nascita.
La fine della solidarietà nazionale porta la logica levogira della quale si diceva prima, la logica secondo cui la democrazia italiana può muoversi solo verso sinistra, a un’impasse: quella logica ha trionfato ma non è riuscita a consolidare il proprio trionfo. E conduce in un vicolo cieco pure il Partito comunista: nelle circostanze date, non può ottenere più di quel che ha ottenuto. A meno che, naturalmente, non recida il cordone ombelicale con l’Unione Sovietica e si trasformi in un partito socialdemocratico occidentale: la direzione nella quale spingono invano quelli che si sarebbero chiamati miglioristi, guidati da Giorgio Napolitano. Per uscire dall’impasse i comunisti si trovano costretti a puntare sull’emergenza democratica. Nelle condizioni date, infatti, così come alla metà degli anni Settanta, è soltanto attraverso una logica emergenziale che possono sperare di rientrare in gioco. Con la celebre intervista di Berlinguer a Scalfari del luglio 1981 l’emergenza democratica si tinge anche di colori etici, la disfunzionalità della democrazia italiana si trasforma in una questione morale.
È difficile esagerare l’impatto negativo che la scelta comunista di alimentare l’allarme democratico, dandogli per giunta una torsione etica, ha avuto sulla storia d’Italia in generale e sulla sinistra italiana in particolare. Ha nutrito il complottismo che già di per sé scorre abbondante nel sottosuolo nazionale, accreditando di una democrazia certamente imperfetta l’immagine fasulla di un regime controllato da poteri occulti – più tardi si sarebbe parlato di un “doppio Stato” – e perennemente sull’orlo del golpe. Là dove la democrazia italiana, con buona pace degli innumerevoli cospirativisti in servizio permanente effettivo, è sempre stata lontana dal correre rischi veri. E ha dato un contributo determinante allo sviluppo dell’antipolitica e alla perdita di fiducia nelle istituzioni repubblicane. La sconfitta dell’opzione migliorista all’indomani della fine della solidarietà nazionale si dimostra così uno dei bivi cruciali della recente storia d’Italia – ed è allora una coincidenza significativa che il cinquantesimo anniversario dei celebri articoli di Berlinguer sia caduto proprio nei giorni in cui è scomparso Giorgio Napolitano. Uno dei tanti bivi nei quali, purtroppo, è stato imboccato il sentiero sbagliato.