La Stampa, 27 settembre 2023
Benzema d’Arabia
Per rappresentare tante anime bisogna avere spalle larghe, per non tradirne nessuna occorrerebbe un manuale che non è ancora stato scritto, così Benzema vive parcheggiato al centro della polemica, incline alla provocazione, sfidante per natura.
Vestito da perfetto saudita, con il tradizionale bisht, lo stesso indumento infilato sulle spalle di Messi prima che alzasse il trofeo mondiale, la thobe bianca, lunga fino ai piedi e lo shemag, il copricapo militare, conosciuto anche come kefiah, ma portato con il protocollo dell’alta uniforme per il giorno di festa. Ed è tutto da decifrare.
Benzema è una faccia della Francia, di una Francia nata ai bordi di periferia che ha giustamente preteso il riconoscimento del passaporto nel rispetto e nell’orgoglio delle proprie origini. Figlio di seconda generazione, il padre si è spostato dall’Algeria a Lione quando era ragazzo, la madre, stesse radici, è nata francese. Volto di quelli venuti su negli Anni Novanta dentro la società che cambia però giudica se porti i catenoni d’oro da ventenne inquieto, se sposi il rap come rivolta dell’anima e non prendi il calcio come un dono. Benzema, nome del calcio francese, di quella massa di talenti così numerosi proprio perché arrivati dalle latitudini più diverse e a mischiare vite e culture e Dna si migliora sempre. Testimone di una religione che a casa sua è mal sopportata e impossibile sintesi tra la maglia bleu, il pallone d’oro, il cuore algerino e il credo musulmano.
Lui ha voluto fortemente essere tutto e non ha fatto che litigare per avere il permesso di appiccicarsi ogni identità addosso. Era un predestinato irrequieto, è stato uno tanto dotato per il pallone quanto difficile da gestire, si è infilato in un sexygate che fa tanto intrigo internazionale e in realtà sapeva più che altro di prima media.
Si è infilato in ogni contraddizione con la pretesa di uscirne senza strappi solo per il fatto di dichiarare un’appartenenza molteplice. Ha ammesso di aver scelto la Francia e non l’Algeria per vincere di più e dirlo gli ha portato risentimento da entrambe le parti. Lo hanno perdonato, perché in effetti ha vinto tanto (non in nazionale) e senza mai abbandonarsi alle frequenti contestazioni. Lo hanno messo in punizione ed è uscito dall’angolo mostrando quella tenacia che rende poster. E lui è appeso in camera dai cabilia, stessa regione di provenienza di Zidane, quint’essenza del berbero, però con quell’accento del Bron, distretto popolare di Lione. Lo tengono sui muri pure lì. Una mappa che non ha fatto che allargarsi.
Benzema si è stranito per l’esclusione dal giro della nazionale prima degli Europei 2016: non lo volevano perché era descritto come un piantagrane lunatico o per razzismo? Non lo volevano perché fuori dal clan al potere o perché lontano dalle idee di Deschamps? Ancora tante voci che spostano le descrizioni e allargano a dismisura una sagoma obbligata a sfaldarsi. A furia di essere un pezzo del cuore di ognuno e di trasformarsi nel disertore per qualsiasi parte, ha scelto la via individualista, intimista, negli anni in cui faceva assist a Cristiano Ronaldo al Real Madrid. Ora sono entrambi nella Premier araba che ha raccolto campioni in un mercato fuori misura, esagerato, dimensione cafona a lui cara. Interprete di vecchia data del bling bling, un misto di moda da cestista e musica incandescente con evidenti tocchi brillanti, veri o presunti. Poi pure abbigliato con le tuniche, con le camicie senza collo, privo di fronzoli. Frequentatore della disco e della Mecca, premiato con il più alto riconoscimento che il calcio offra al singolo, le Ballon d’or. Ecco, prima dei Mondiali in Qatar, riammesso alla corte di Francia, finalmente parte della rosa in partenza per i primi Mondiali arabi e già incoronato migliore, pareva aver compiuto la magia e la riconciliazione assoluta. Un’illusione. Si è infortunato e il respiro di sollievo emesso dalla Francia che non ha dovuto farci i conti senza il bisogno di estrometterlo si è sentito così forte che lui ha archiviato l’idea. Ha salutato la carriera internazionale, votandosi al club e a questo punto all’Islam.
Ha scelto l’Al-Ittihad, una delle squadre di Gedda, «per un ritorno a casa» e ora posa per dire «guardate la vita che abbiamo», lo scrive sui social ripuliti dagli insulti.
L’estrema destra francese insorge e buona parte del resto del Paese glielo lascia fare, così che il dissenso arrivi senza pronunciarlo. Benzema pretende di essere riconosciuto, ma non si sa più da chi: proietta l’immagine di un posto che litiga con la libertà e lo fa con una spada tra le mani, la stessa che è impressa nella bandiera saudita. Non è il solo giocatore emigrato nel Golfo che celebra la festa nazionale dell’Arabia vestito così, ma gli altri sono se stessi in un costume straniero, Benzema è quel francese, musulmano che vuole mostrare tutte le identità percepite e si ritrova a essere la faccia di un conflitto tra libertà. Quelle che i francesi negano agli islamici con il divieto di mostrare legami con il loro culto, quello dell’Arabia che due giorni fa ha emesso una sentenza di detenzione per una attivista diciottenne. Avere le spalle larghe non basta.