La Stampa, 27 settembre 2023
Riad strega Parigi con un pallone
È come una lenta ma costante trasformazione estetica quella che avviene all’ombra dei palazzoni di Aubervilliers o nelle strade di Saint-Denis, nella banlieue parigina, dove veder passeggiare donne con il capo coperto dall’hijab o uomini con il qamis, il caftano tipico dei Paesi arabi, non fa più lo stesso effetto di una trentina di anni fa. Un fenomeno omogeneo in tutte le banlieue di Francia, dove le comunità musulmane, discendenti di un’immigrazione arrivata alla terza o quarta generazione, sono ormai parte integrante del tessuto sociale.
Realtà distanti anni luce dal glamour e dalla frenesia parigina, incastonate in un universo parallelo che, con il passare degli anni, sembra allontanarsi sempre di più dal resto della Francia. Colpa di una frattura sociale ed economica all’interno della quale si inserisce una componente esterna di stampo identitario, che influisce soprattutto sui più giovani. In quei quartieri, dove il tasso di disoccupazione generalmente è più alto della media nazionale e le difficoltà economiche sono evidenti, i ragazzi e le ragazze trovano un rifugio culturale nella tradizione delle loro radici, trasformata per l’occasione in un elemento distintivo, spesso in contrapposizione con i valori della République ma utile per connotarsi all’interno di una società così esclusiva, dove l’ascensore sociale per loro è bloccato al pianterreno.
Le ragazze cominciano quindi ad indossare l’abaya, abito proveniente dai Paesi del Golfo, in particolare l’Arabia Saudita, che il governo di Emmanuel Macron ha da poco vietato nelle scuole, perché considerato come una veste religiosa, e i ragazzi fanno a gara a chi ha la maglia del miglior calciatore del momento, tra Cristiano Ronaldo o Karim Benzema. Fuoriclasse acquistati da squadre saudite che stanno facendo man bassa nei campionati europei. Un interesse, quello di Riad nei confronti del pallone, che nasconde una strategia di comunicazione ben precisa.
Un po’ come quella del Paris Saint-Germain, il club parigino detenuto dal 2011 da Qia, fondo di investimenti sovrano di Doha. Il nome del suo fuoriclasse, Kylian Mbappé, campeggia sulla maggior parte delle schiene degli adolescenti banlieusard, tra i quali c’è ancora chi conserva la maglietta di Neymar, passato dalla squadra della capitale francese alla saudita Al Hilal. Uno dei tanti trasferimenti che sta portando alla ribalta il calcio saudita, diventato ormai uno dei principali strumenti di soft power di Riad nell’ambito di Vision 2030, il piano concepito dal principe Mohammed Bin Salman per emancipare il suo Paese dalla dipendenza del petrolio diversificando l’economia nazionale con una serie di imponenti investimenti esteri.
La Francia è uno dei territori di caccia preferiti di Riad, che ha deciso di aprire a Parigi un ufficio del suo fondo sovrano, il Public Investment Fund, ma anche degli altri Paesi del Golfo. Il Qatar negli ultimi anni si è accaparrato alcuni nomi di spicco del lusso francese, come la maison di moda Balmain, i grandi magazzini Printemps e una serie di hotel tra Parigi e la Costa Azzurra. Un appetito che ha aperto lo stomaco anche agli Emirati Arabi Uniti, che nel 2021 hanno investito 1 miliardo di euro nel fondo francese creato da BpiFrance per sostenere le aziende d’oltralpe.
Questioni di geopolitica e di economia che nemmeno sfiorano le orecchie dei più giovani, interessati solo ai loro beniamini sportivi, visti come campioni che hanno lasciato i massimi livelli dei campionati europei per giocare in Paesi musulmani. Gli stessi dai quali viene quella corrente salafita penetrata nelle banlieue francesi, vecchi bastioni della sinistra d’Oltralpe diventati oggi microcosmi multiculturali. Terreno fertile dove seminare attraverso l’apertura di nuovi ristoranti halal o di sale di sport dedicate solo a musulmani, ma anche attraverso il finanziamento di moschee (sebbene un rapporto parlamentare del 2016 abbia rivelato che la maggior parte sono sostenute economicamente soprattutto dalle comunità musulmane locali). L’influenza di queste correnti più radicali passa anche per i social network come TikTok o Instagram, dove prosperano i predicatori 2.0 che in francese esprimono le posizioni più estreme.
In un simile contesto, il governo francese corre ai ripari sbandierando il principio della laicità come ultimo baluardo in difesa dei valori repubblicani. Lo fa nello sport, vietando il velo alle sue atlete che parteciperanno alle prossime Olimpiadi di Parigi o nelle scuole, dove in base a una legge del 2004 che vieta l’utilizzo di vestiti e simboli religiosi troppo vistosi è stata proibita l’abaya. Una mossa discriminatoria secondo la sinistra più radicale e molte associazioni musulmane, che appare più come un gesto disperato da parte di un Paese che cerca di risanare una delle sue tante fratture. —