il Fatto Quotidiano, 27 settembre 2023
Intervista a Paolo Di Paolo
Paolo Di Paolo, tagliato il traguardo dei quarant’anni, nel suo nuovo Romanzo senza umani, in libreria per Feltrinelli, prova a indagare “il fallimento delle nostre vite potenziali”. L’autore romano è convinto che la memoria sia sempre un tradimento, che il nostro passato sia scandito anche dal “non accaduto”.
A raccontarsi qui è Mauro Barbi, storico ossessionato dai suoi studi sull’era glaciale che ha funestato secoli addietro il lago di Costanza. Il suo rovello sulle sventure climatiche è tuttavia un alibi per non ammettere di non essere stato un buono storico di se stesso: “Dov’eri mentre succedevano le cose, mentre succedeva tutto”. È la sua glaciazione interiore il vero scavo archeologico, specchio “di tutto ciò che non diventa Storia, di ciò che ci riguarda riguardando gli altri”.
“Questo romanzo non è prodotto da un’intelligenza artificiale” recita un’avvertenza in calce alle sue pagine. Perché ha sentito di precisarlo?
L’ho annunciata sui social e molti hanno ironizzato. O hanno creduto fosse una petizione anti-tecnologica. Invece è un modo per dire: c’è da tenere fermo un discrimine tra creatività umana e creatività di altre intelligenze. Nella grafica, nell’illustrazione, nel cinema l’impatto di AI è già significativo. Non manca molto al romanzo su misura prodotto da ChatGPT o chi per esso.
Lo storico Barbi realizza che forse solo la letteratura può restituire davvero il passato che abbiamo alle spalle. Eppure oggi molti gridano alla morte del romanzo.
Se ne pubblicano a vagonate. Quindi si può dire che il romanzo sia vitalissimo. E tuttavia: la vede la stanchezza sui volti degli uffici stampa degli editori? Anzi, la noia, l’indifferenza… Non gliene importa più niente. Sono schiacciati dalla quantità. Non leggono i romanzi che promuovono. Né si scaldano. Impossibile biasimarli. Perfino gli editori nel complesso sembrano annoiati dai libri che loro stessi pubblicano. Vale anche per i lettori forti. C’è una sensazione di soffocamento. Nonostante questo, il mio personaggio crede non nel Romanzo in quanto tale, ma nella possibilità che un certo romanzo diventi macchina del tempo, realtà aumentata, esperienza emotiva.
Nel XV e nel XVI secolo un lungo inverno ha inciso sulla psiche, sui corpi. Certi sovrani di allora si sono sfogati con la guerra. Il clima è un protagonista poco esplorato della storia del mondo?
Pochissimo. Guardiamo al futuro, ma spesso è un alibi comodo. E come dice il mio personaggio: le distopie hanno rotto i coglioni. Per questo sono andato a cercare distopie già compiute, stagioni di climi estremi nel passato. Le cause non erano di natura antropica, ma gli effetti e i traumi sono quelli che cominciano a metterci in seria difficoltà e ci travolgeranno. Checché ne dicano i giornali negazionisti.
Scomoda Hegel, il quale asseriva che il caldo e il freddo estremo non consentono di fabbricare un mondo. Il clima dunque vale anche come eterna metafora di conquiste o regressioni civili?
Sì. Lei non ha mai sentito la testa vuota in un giorno di afa snervante? E non si è sentito semimorto quando il freddo umido di certe serate entra nelle ossa? Filippo II era costantemente informato sulle variazioni meteorologiche nei suoi vasti domini.
Barbi interviene a un talk televisivo per spiegare la sua teoria. Solo banalizzazioni e fuga dalla complessità.
L’ho immaginato in uno dei talk che di tanto in tanto frequento anche io. Funziona così: 37 secondi a testa. Ma se hai studiato per decenni qualcosa, 37 secondi per “divulgare” un sapere sono pochi. Tra applausi e cazzate, Barbi fa fatica.
No alle proteste contro le statue, dice Barbi, insofferente alle crociate postume. Leggiamo la storia con i fanatismi di oggi?
Faccio però finta di assecondare Barbi, che è sulla mezza età, nel rifiuto della cancel culture. E invece, in una lunga lettera a uno studente, gli dice: hai torto, ma in realtà hai ragione. Può essere stupido imbrattare le statue che ci stanno sulle scatole? Sì, forse lo è. E tuttavia, ammette Barbi, sulla base delle vostre provocazioni, proteste, petizioni, domande, io sono già cambiato, ho cambiato il modo di vedere le cose. Detto altrimenti: quando mai – prima di certi sit-in – ci eravamo posti pubblicamente il tema di quanto fossero stronzi i nostri celebrati antenati?
Nel romanzo aleggia una domanda che grava sulla memoria pubblica, ma anche su quella privata di ciascuno: che cosa ricordano, gli altri, di noi?
È una domanda sconcertante. Solo all’apparenza inoffensiva. Se faccio raccontare chi sono agli altri, il quadro si carica di chiaroscuri, contraddizioni, sorprese. Per carità, non solo in negativo. Ma tutti vorremmo essere ricordati bene. Da vivi, tutto è più difficile. Da morti, ci vengono perdonate molte cose. Ma alla lunga, alla lunghissima, ci aspetta solo l’oblio.