il Fatto Quotidiano, 27 settembre 2023
Voglio vivere nel Tg1
Un vecchio proverbio brasiliano dice: “Accendo la tivù e c’è tutto, apro il frigo e non c’è niente”. Uff, populista, massimalista, sempre a lamentarsi, che palle. Accendere la tivù, invece, non è mai stato rilassante come oggi, almeno qui, dove qualche telegiornale sta diventando la sezione costume di un rotocalco degli anni Cinquanta, un catalogo dell’Italia Bella, quella che vorremmo, colorata, affollata di turisti a bocca aperta per le sue meraviglie, intenta a passioni solide e tradizionali, come il giardinaggio, o la cucina regionale.
Sì, è vero, si parte sempre con qualche seccatura, i migranti o l’economia, pure la guerra, qualche frase di politico, le faccette di Giorgia che sono diventate un format. Ma poi, ecco che si apre la prateria dei nostri sogni, il racconto garrulo e soave di un Paese che ha molti problemi, ma il più pressante sembra questo: sui nostri balconi, gardenie o gerani? Una sarabanda fantastica: il mercatino di tendenza, la pasta coi tuberi gialli, l’annata del tartufo, il caso umano di riscatto e rinascita (“facevo il manager, ora bado le pecore e sono felice”), il cane che conta fino a sei, la sagra delle roselline a Vergate sul Membro e il neonato che riporta la vita nel borgo abitato da sei persone. Alla fine del Tg abbiamo assistito a venti minuti di diretta dal Paese dei Balocchi, un vorticoso cinegiornale strenuamente impegnato con parole e opere (e soprattutto omissioni) a disegnare un Paese rilassato e ottimista, speranzoso nel futuro, che guarda al domani con lo sguardo fervido e acceso del pioniere del benessere.
Insomma ci si lamenta molto – e giustamente – dello stato dell’informazione italiana, della sua sudditanza al potere e del controllo politico, ma la narrazione si fa anche in altri modi e maniere, meno diretti e anche più ideologici. Visto che si sono buttati fiumi d’inchiostro sul primo anno di Meloni – e giù osanna dai suoi, nonostante i millemila fallimenti – è forse il caso di guardare a un anno di narrazione del Paese, il famoso Paese reale. E quello che ne esce, in effetti, è una specie di buco spazio temporale: fuori dal tuo incubo di inflazione, recessione, benzina, mutui, c’è tutto un mondo di notizie fantastiche: asteroidi bellissimi pieni d’oro, progressi della scienza, città meravigliose fondate dagli antichi romani, che saremmo noi di questa Nazione. Alla fine, ti senti veramente un coglione, a esserti occupato di cose così meschine come i Cpr o il caro-affitti, e se ti chiedessero “dove vuoi vivere?” non avresti esitazioni: “Nella seconda parte del Tg1”.
In sostanza, non sarebbe un’ambizione sbagliata, e tutti dovremmo tendere a vivere in un mondo senza spigoli, dove non bisogna mettere insieme il pranzo con la cena o pagare la benzina come lo champagne, un mondo di progressi scientifici e sagre paesane dove noi – perché siamo dei geni italiani – ce la caveremo sempre.
Insomma, la narrazione sì, è un po’ cambiata in questo anno, anche se la tendenza è antica e stratificata e non c’è nulla di veramente nuovo, a parte l’abuso della parola Nazione, ormai spolverata come zucchero a velo, e spesso a vanvera, su ogni discorso. Un po’ poco, in effetti, per la poderosa seduta di ipnosi che servirebbe a scordarci la realtà, ma chissà, forse si può migliorare, colorare di più, esagerare. Fornire insomma una narrazione del Paese tutta virtuale e rassicurante, va tutto benissimo, siamo felici, un’Italia a realtà aumentata, che sarebbe tra l’altro l’unica cosa che aumenta nell’anno uno dell’era meloniana.
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