la Repubblica, 25 settembre 2023
Se i super ricchi pagano le tasse
Da parecchi anni, negli Stati Uniti così come altrove in Occidente, è in corso un dibattito sulla tassazione dei ricchi e in particolare dei super ricchi. In Italia il tema è stato rilanciato di recente da una bella intervista ad Abigail Disney pubblicata dal Venerdì di Repubblica. Disney, multi-milionaria erede di una parte del patrimonio di quella che fu una delle famiglie più ricche e potenti d’America, confessa di pagare meno tasse della sua assistente, cosa che giudica (a ragione) folle. Questa affermazione riecheggia quella, ormai vecchia di un decennio, di Warren Buffett il quale, pur essendo ricchissimo (a oggi il quinto più ricco al mondo secondo la classifica di Forbes), pagava un’aliquota media sul suo reddito complessivo inferiore a quella della sua segretaria. In buona sostanza, quello che Buffett contestava era un sistema fiscale che, negli Stati Uniti del ventunesimo secolo, era divenuto regressivo – e che tale è rimasto, data l’impossibilità di attuare una qualsiasi riforma fiscale incisiva con cui si sono scontrati anche presidenti sensibili al tema, in particolare Joe Biden.
Vi è molto, in questa situazione, che dovrebbe farci riflettere. In primo luogo, potremmo chiederci come sia stato possibile arrivare a tanto, visto che nei decenni immediatamente successivi alla Seconda Guerra Mondiale il principio di progressività fiscale, secondo cui l’aliquota effettiva deve crescere al crescere del reddito, era un patrimonio ideale condiviso da tutti, a destra come a sinistra. Negli Stati Uniti, l’idea che i sistemi fiscali dovessero venire semplificati e le aliquote massime andassero ridotte (ancora attorno al 1975, l’aliquota massima dell’imposta sul reddito dei cittadini statunitensi era pari al 70%; in Italia nello stesso periodo era al 72%) fu introdotta dal presidente repubblicano Ronald Reagan che la realizzò con una serie di riforme nel corso degli anni ’80.
È con Reagan che la proposta di abbassare l’aliquota massima (quella pagata dai più ricchi) è divenuta elemento caratterizzante delle agende politiche dei partiti di centro-destra, diffondendosi dagli Stati Uniti all’Europa con la mediazione iniziale della premier britannica Margaret Thatcher. Ma come ha fatto a imporsi in modo così pervasivo? Inizialmente hanno di certo contato la novità, la possibilità di proporre un’agenda chiaramente distintiva rispetto alla sinistra di allora, e un certo supporto scientifico per l’idea che, per essere efficaci, i sistemi fiscali debbano essere semplici. Anche ammettendo che quest’ultimo punto sia vero, vi è una differenza evidente tra un sistema più semplice e con poche aliquote, ma chiaramente progressivo, e il sistema sostanzialmente regressivo che, a detta di Disney, di Buffett e di molti esperti, vediamo oggi realizzato negli Stati Uniti. Vi deve essere, quindi, qualche altra ragione – ed è legittimo sospettare che un ruolo importante sia stato svolto dal crescente coinvolgimento dei super ricchi in politica, sia direttamente (basti menzionare Berlusconi in Italia e Trump negli Stati Uniti) sia tramite il finanziamento di agende politiche sostanzialmente favorevoli alla parte più facoltosa della popolazione.
È possibile che il dibattito sulla tassazione dei ricchi avviatosi negli Stati Uniti resti velleitario e incapace di modificare una situazione ormai radicata. Ma in Italia, dove fortunatamente qualcosa resiste della buona vecchia progressività fiscale, si discute di proposte di segno opposto visto che una parte importante del centro-destra insiste sulla flat tax come obiettivo finale della riforma fiscale. La flat tax è, per definizione, incompatibile con la progressività del prelievo e favorisce i percettori dei redditi più elevati. I partiti di sinistra e centro-sinistra sono uniti nell’osteggiarla – ma l’impressione è che, sui temi fiscali, si trovino più a loro agio nel rifiutare le idee di altri, che nel proporne di proprie. A partire dall’era di Reagan e Thatcher, ovunque in Occidente il centro-destra non solo ha imposto la propria agenda di riforma fiscale, che è l’unica a essere davvero oggetto di discussione, ma sembra aver convinto tutti (sinistra compresa) che a parlare di tasse, se non per proporne una riduzione, si perdono le elezioni – solo che, a quanto pare, le elezioni si perdono anche non parlandone.
Ciò detto, è evidente che, qualora esistessero gli spazi di bilancio per ridurre la pressione fiscale media, sarebbe opportuno farlo: nel 2021, la pressione fiscale complessiva in Italia è stata pari al 43.3% del Pil, oltre 9 punti percentuali sopra la media Ocse.
Questa riduzione, però, andrebbe realizzata in modo tale da rafforzare la progressività fiscale e facendo contribuire (proporzionalmente) di più i ricchi, che tra l’altro hanno patito meno delle altre componenti della società le conseguenze delle crisi degli ultimi anni.