la Repubblica, 25 settembre 2023
Macao non conosce crisi
Perché vestirsi se si può comodamente scendere a fare una puntatina in accappatoio e ciabatte? La cravatta non è mai stata un obbligo da queste parti, vero, e vuoi mettere la comodità: dalla camera d’hotel al casinò a qualunque ora del giorno e della notte. «Ma guardi che questo non è niente, ne abbiamo viste pure di peggiori. Un ospite qualche anno fa rimase in mutande al tavolo da baccarat: i suoi pantaloni rossi di velluto fortunati si erano macchiati, ha chiamato uno di noi per farglieli lavare, ma non voleva alzarsi, si sentiva ispirato. Mezz’ora dopo i suoi pantaloni erano pronti, ma a quel punto – in mutande – ci era rimasto non solo letteralmente», ci racconta divertito uno dei croupier del Venetian.
Cartoline da Macao, la Las Vegas d’Oriente. Ritornata in questi mesi ad essere presa d’assalto da milioni di cinesi che sui pullman organizzati si fanno scorrazzare da un casinò all’altro sulla “strip” cittadina dove il campanile di San Marco del Venetian, con dentro facchini vestiti da gondolieri, sovrasta il Big Ben del Londoner con la facciata in stile Westminster e il Parisian con la sua copia perfetta in miniatura della Tour Eiffel. O, meglio, sarebbe più giusto ritornare a chiamare Las Vegas la Macao d’Occidente. Sì perché dopo le chiusure e le restrizioni per la pandemia, la città si è ripresa la corona di mecca del gioco d’azzardo mondiale che aveva perduto. E non intende più restituirla.
Sfiorati i 10 miliardi di dollari di entrate lorde nella prima metà di quest’anno, mentre la rivale americana è ferma a 7,5. «Alla fine del 2023 Macao arriverà a 22 miliardi: sarà due terzi di quello che entrava nel 2019, prima del Covid, certo, ma i segnali di recupero ci sono tutti», ci racconta Alidad Tash che è stato manager prima al Venetian di Vegas, poi al casinò “gemello” qui e ora dirige la società di consulenza “2nt8”. Tutte le sei grandi sorelle – le compagnie che gestiscono i 41 casinò in città – stanno recuperando le perdite degli anni scorsi. «Arriveranno a tre volte tanto quanto genera Las Vegas». Dopo aver superato la rivale statunitense per oltre un decennio – in alcuni anni anche di sette volte – l’anno scorso Macao è rimasta indietro, registrando appena 5,2 miliardi di dollari di entrate, contro gli 8,3 miliardi della Strip americana.
Incastrata in quell’angolo di costa dove il fiume delle Perle va a tuffarsi, in questa Cina in miniatura che fu colonia portoghese per oltre mezzo secolo, unico fazzoletto di terra cinese in cui è legale giocare, quest’estate ci si è aggirati in media poco sotto i 2 milioni di turisti al mese, 90% dalla madrepatria, tornando ai tempi d’oro. Tra immancabili selfie davanti alle rovine di San Paolo, aperitivi al vecchio molo dei pescatori,shopping tra le antiche strade coloniali che da piazza del Senato portano alla Cattedrale. E ovviamente sale da gioco, scintillanti e rumorose, piene come non si vedeva da molto.
Quelli che non si vedono più in giro invece sono “le balene”, come le chiama Tash. I grandi giocatori, bersaglio della campagna anticorruzione di Pechino nell’ultimo decennio, «si sono praticamente dimezzati». E i cosiddetti “junket”, gli intermediari che per conto dei casinò reclutavano facoltosi mandarini operando in un’area a dir poco grigia (facendo credito per ovviare al limite che i cinesi possono cambiare in valuta estera, 50mila dollari all’anno) dopo i fastidi della leadership comunista e soprattutto dopo l’arresto del re del settore, Alvin Chau, condannato a 18 anni di carcere per gioco illegale, si sono di fatto estinti. «Ma non importa – continua Tash. Ci sarannomeno balene in giro, ma è un mare questo che straripa di pesci piccoli. La situazione economica cinese non sta avendo effetti su Macao».
Basta farsi un giro in uno qualsiasi dei casinò per rendersene conto. I tavoli di baccarat, che vanno per la maggiore, dove siedono fianco a fianco giovanotti in canottiera con lo stuzzicadenti in bocca ed eleganti signore griffate dalla testa ai piedi, hanno puntate minime da 250 euro. A quelli di black jack difficilmente si scende sotto i 60. Allo storico Grand Lisboa qualcuno conta i soldi che gli son rimasti dentro piccole buste bianche di carta: fino all’ultimo si gioca.
Circa l’80% delle entrate di Macao proviene dai casinò. Ma il governo centrale di Pechino ha deciso che è ora di diversificare per favorire altri settori: tecnologia, finanza, medicina tradizionale. Le licenze sono state tagliate da 20 a 10 anni. «Scelte di una Cina sempre più ideologica: al governo forse non sta bene che la metà di tutti questi soldi vada a compagnie americane che gestiscono la maggior parte dei casinò», scherza, ma non troppo, Tash. Con la nuova riforma il governatore avrà il potere di revocare qualsiasi concessione per motivi di sicurezza nazionale. Soprattutto il governo ora obbliga i casinò ad investire in business non legati al gioco, proprio come fa Las Vegas da anni: musei, centri convegni, teatri, palazzetti per concerti per attrarre un altro tipo di turismo. Operazione complicata: «I cinesi hanno già accesso a tutto ciò nelle loro città d’origine», conclude Tash. «Quello per cui vengono qui è l’unica cosa che non è legalmente permessa in Cina: il gioco d’azzardo».
«Ovviamente Pechino sarebbe pazza se rinunciasse ai casinò: vuole uno sviluppo più bilanciato e sano. Dopo tutto, agli occhi del Partito comunista è politicamente inaccettabile vedere orde di compatrioti andare a giocare d’azzardo», ci spiega Sonny Lo, analista che studia la politica di Macao da decenni. «Macao ha rappresentato per molto tempo un pericolo per la sicurezza del governo centrale: non mancavano in passato funzionari di Partito arrivati con valigette piene di soldi pubblici a farsi spennare come polli e tornati a casa con le tasche vuote».
Un maggior controllo, quello sui tavoli verdi, che si sta traducendo anche in una stretta sulla società civile. Tornata alla Cina nel 1999, retta come Hong Kong dalla formula “un Paese, due sistemi”, Macao non ha mai mostrato politicamente finora però l’attivismo dei vicini di casa dell’ex colonia britannica. Diversa per lo sviluppo che ha avuto negli ultimi anni (quasi la metà dei residenti sono immigrati dalla Cina). Ma non si sa mai. A maggio di quest’anno è stata ampliata la legge sulla sicurezza nazionale. «Le diverse opinioni non sono più ammesse. I funzionari comunisti sentivano il pericolo di una ‘hongkonghizzazione’, una società che temevano potesse diventare più liberal. Già due anni fa, alle ultime elezioni, quasi tutti i candidati del campo democratico sono stati squalificati: l’opposizione deve essere leale a Pechino», continua Lo.
«C’è ancora molta incertezza sulla legge sulla sicurezza nazionale. È troppo vaga. Abbiamo visto come è stata – e come viene tuttora – interpretata a Hong Kong», spiega un giornalista locale, che preferisce rimanere anonimo, davanti ad un bacalhau à braz in un ristorantino in riva al mare sulla spiaggia di Hac Sa, nel villaggio di Coloane, lontano dallo sbrilluccichio dei casinò. «Sulla carta il governo lo possiamo criticare. Ma non lo facciamo più. Ci siamo imposti una bella dose di autocensura”.