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 2023  settembre 25 Lunedì calendario

Il golpe bianco che non ci fu

La morte di Giorgio Napolitano è un’occasione per la destra italiana di rileggere la sua storia recente e di farlo finalmente in autonomia: anche l’altro grande protagonista dei nostri Anni Duemila, Silvio Berlusconi, è scomparso, anche lui ha avuto un corale tributo pubblico, e finalmente tutti potrebbero sentirsi liberi di valutare il percorso di questi due presunti arcinemici in una dimensione “sine ira et studio”, di costruire un racconto più obiettivo dei loro anni ruggenti. E tuttavia non si vede molta propensione a uscire dalle vecchie narrazioni. Si preferisce continuare a descrivere il primo bi-Presidente della storia italiana come l’uomo del complotto anti-berlusconiano e quindi delle manovre “contro il popolo”, dando spazio a resoconti forzati sul biennio 2010-2011 e sulla sua conclusione con le dimissioni del Cavaliere e l’insediamento del governo tecnico di Mario Monti.
Ero in Parlamento, in quel biennio, nel gruppo dei parlamentari che avevano seguito Gianfranco Fini nel suo strappo, e ricordo bene la temperie politica dell’epoca. Anche allora le azioni di Napolitano furono messe sub-judice in modo assai polemico ma non certo dai “berlusconiani”. A mugugnare e interrogarsi fu il fronte opposto, quello che si era impegnato per aprire una nuova pagina politica. La storia è nota. In novembre le dimissioni della delegazione governativa finiana. Subito dopo la mozione di sfiducia firmata da 85 deputati provenienti dalla maggioranza, un documento che in quel momento risultava largamente vincente. Poi una difficile questione di calendario da risolvere: accelerare il voto o posticiparlo per concludere l’esame della legge di Stabilità? Napolitano ne fu arbitro equidistante. Convocò Fini e il presidente del Senato Renato Schifani, si concordò sul “prima la manovra” e dunque si aprirono tempi supplementari per la sfiducia. Silvio Berlusconi, con il suo plenipotenziario Denis Verdini, li usò per arruolare i Responsabili e ribaltare anche se di pochissimo (tre voti) l’esito della votazione.
Furono i cosiddetti finiani e l’opposizione di sinistra, all’epoca, a lamentarsi tra loro di quella tempistica ed è per me sorprendente che questo dettaglio non banale sia sparito in quasi tutte le ricostruzioni postume della destra. Sì, sarebbe possibile essere più equilibrati e generosi verso un Presidente che è davvero difficile accusare di parzialità anti-berlusconiana. Ma farlo significherebbe anche rileggere la storia successiva, le dimissioni del Cavaliere e la nascita del governo Monti, un altro evento segnato dal sospiro di sollievo della destra perché il Popolo della Libertà evitava il rischio di elezioni anticipate quasi certamente perdenti, lasciava un tecnico a intestarsi provvedimenti del tutto antipopolari, portava a scadenza una legislatura assediata dagli scandali (il caso Ruby tra tutti, con il fantasmagorico voto parlamentare sulla nipote di Mubarak) e segnata dalla nascita di un florilegio di mini-gruppi ingovernabili (Coesione Nazionale, Iniziativa Responsabile, Noi Sud, I Popolari di Italia Domani, il Movimento Responsabilità, l’Alleanza di Centro).
Rileggere quella pagina guardando ai fatti e non alle narrazioni propagandistiche del “dopo”, potrebbe essere utile a dissipare l’idea del complotto che da un decennio sovrintende al racconto politico italiano e lo trasforma in un machiavellico dipanarsi di congiure ordite da forze senza volto. Sarebbe tempo di indicare gli errori delle classi dirigenti e chiamarli con il loro nome: superficialità, ossessione per il consenso, scarsa capacità di mediazione, talvolta delirio di onnipotenza. Sarebbe ora, anche, di riconoscere le disastrose evenienze politiche che i nostri Presidenti della Repubblica hanno dovuto governare: solo in quel fatidico biennio un presidente del Consiglio che aveva avviato la caccia all’uomo nei confronti del presidente della Camera giudicato infedele e ribelle, una coalizione di governo apparentemente di ferro che si sfarinava nella scissione, il grottesco spettacolo degli Scilipoti e dei Razzi, i grandi moralizzatori del dipietrismo, arruolati alla causa berlusconiana con il disdoro per le istituzioni che ne derivò e incardinò il racconto populista del “sono tutti uguali”.
Di tutto questo, per paradosso, Silvio Berlusconi aveva forse una percezione personale più concreta e vicina alla realtà di quanto mostrava e di quanto dicevano e dicono i suoi amici. In pubblico (ma solo dopo la fine del governo Monti e nell’imminenza del voto) avallò l’idea del golpe bianco per costruire una campagna elettorale fondata sul sentimento della rivincita, ma nelle sedi politiche che contano fece tutt’altro. Appena due mesi dopo le Politiche del 2013 votò il bis del Presidente Napolitano, giudicò con assoluto entusiasmo il suo intervento alle Camere («il più ineccepibile e straordinario che io abbia mai sentito in vent’anni»), plaudì senza riserve all’ampissima maggioranza trasversale raccolta dal suo nome.
Sarebbe tempo che il mondo conservatore rileggesse quella storia e ne soppesasse i passaggi. Non solo come atto di serietà istituzionale legato al suo nuovo ruolo di governo ma anche come prova di sincerità verso sé stessa e come antidoto al virus della manipolazione storica, cioè la patologia tutta italiana di piegare gli eventi di ieri alle esigenze dell’oggi. La destra ha difeso a lungo il diritto alla rilettura del passato remoto d’Italia: sarebbe tempo di esercitare un po’ di onesto revisionismo anche sul passato prossimo, quello di cui siamo stati diretti osservatori e attori. —