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 2023  settembre 25 Lunedì calendario

Scommessa libera: il divieto agli spot c’è, ma non si vede

Se seguite lo sport, in particolare il campionato di calcio, avrete la sensazione di essere circondati da pubblicità di scommesse. A bordo campo, sulle magliette dei calciatori, durante gli intervalli, prima delle partite, dopo le partite, durante le partite, sui quotidiani, si è ricoperti di nomi di siti che strizzano l’occhio agli scommettitori con suffissi come bet, poker, vegas e simili, mentre siparietti illustrano quali siano le “quote” per chi dovesse scommettere su questo o quel risultato. Anche il concessionario ufficiale, ed esclusivo, delle partite di Serie A, Dazn, ha iniziato a promuovere il suo Daznbet durante le trasmissioni. Ma dal 2018 in Italia è vietata “qualsiasi forma di pubblicità, anche indiretta, relativa a giochi o scommesse con vincite di denaro nonché al gioco d’azzardo, comunque effettuata e su qualunque mezzo, incluse le manifestazioni sportive, culturali o artistiche, le trasmissioni televisive o radiofoniche, la stampa quotidiana e periodica, le pubblicazioni in genere, le affissioni e i canali informatici, digitali e telematici, compresi i social media”. Più chiaro di così… Che è successo allora?
Come ha ricostruito recentemente Pagella Politica, il divieto di pubblicità per scommesse e gioco d’azzardo era stato voluto dal primo governo Conte nel decreto Dignità, con parole nette: “Un passo storico” per l’allora ministro allo sviluppo economico Luigi Di Maio, col plauso dei movimenti che si battono contro il gioco d’azzardo e la ludopatia. Che non sarebbe stato facile bloccare la pubblicità per un settore che porta all’erario più di 8 miliardi di euro l’anno – e in piena crescita (vedi articolo accanto) – non era un segreto. Per quanto riguarda il settore sportivo, poi, il tema era anche di competizione internazionale, trovando l’opposizione congiunta di Lega Serie A, Lega Serie B, Lega Basket e Lega Pallavolo Serie A che esprimevano “unanimemente la propria preoccupazione sull’impatto che il divieto di pubblicità e sponsorizzazioni per giochi e scommesse con vincite in denaro avrà sulle risorse dello sport italiano”.
Tra 2018 e 2019 le squadre di serie A che avevano firmato contratti con società di scommesse, come la Roma, hanno dovuto rescinderli, ma gli stessi hanno continuato a proliferare all’estero: nel 2022 erano il 40% dei main sponsor in Premier League, il campionato inglese – che ad aprile 2023 ha deciso invece per un divieto, pur con un periodo “transitorio” di tre anni -, coppe europee come la Conference League vedono società di gambling come sponsor, società che fanno a gara per accaparrarsi campioni come Cristiano Ronaldo per testimonial. L’Italia era isolata, e se da subito le società avevano trovato espedienti per aggirare il decreto, ad esempio con siti che non parlano esplicitamente di scommesse ma che rimandano, nel nome e nei contenuti, a siti di betting, nel 2019 sono arrivate le linee guida dell’Agcom a mettere una pietra tombale sulle possibilità di avere un divieto efficace.
Pubblicate il 18 aprile 2019, chiarivano tra le altre cose come non rientrassero nel divieto “i segni distintivi del gioco legale ove strettamente identificativi del luogo di svolgimento della relativa attività (a titolo esemplificativo: mere insegne di esercizio o domini di siti online)” e “i servizi informativi di comparazione di quote o offerte commerciali dei diversi competitors” o anche “le informazioni limitate alle sole caratteristiche dei vari prodotti e servizi di gioco offerto” come “le informazioni che sono rese disponibili nei siti di gioco o nei punti fisici di gioco, riguardanti le quote, il jackpot, le probabilità di vincita, le puntate minime, gli eventuali bonus offerti”.
Liberi tutti, e non è un caso che allora i promotori del divieto, in particolare il M5S, commentassero duramente: “Ora l’Agcom ha talmente annacquato il divieto che sta praticamente dicendo a tutte quelle famiglie ‘sì, il ministro ha vietato la pubblicità, ma noi la rimettiamo, in modo che tuo figlio giochi ancora, e ancora’. Perché di fatto è così”, scriveva Luigi Di Maio, annunciando un ricorso al Tar che però non si è concretizzato.
L’Agcom al Fatto spiega la genesi di quelle linee guida, chiarendo che l’Agenzia non esprime pareri ex ante e valuta caso per caso le fattispecie: le linee guida quindi sono state redatte anche alla luce delle precisazioni emerse dalle sentenze del giudice amministrativo a valle di una serie di contenziosi che stavano emergendo o potevano emergere. Stanti queste linee guida, Agcom ha comunque provveduto a irrorare sanzioni nel 2022 per 2,5 milioni di euro sulla base del divieto del 2018, coinvolgendo importanti player dell’online come Google e Meta. Briciole, per un settore che muove decine di miliardi.
Ormai, a distanza di cinque anni, il divieto sembra essere diventato solo un orpello. Il ministro per lo Sport Andrea Abodi a dicembre aveva dichiarato di voler “rendere nuovamente legali pubblicità e sponsorizzazioni delle aziende del betting”, per poi ribadire, a marzo, in Parlamento: “Il nostro Paese è l’unico in Europa che ha questo tipo di restrizioni. Non vuol dire tutto, ma vuol dire qualcosa”. Poche settimane dopo, come accennato, il Regno Unito ha introdotto il divieto (tra tre anni) di avere quel tipo di sponsor sulle magliette e il dibattito si è aperto a livello europeo: se ne discute in Belgio e in Spagna. Ma in Italia, dove una legge c’è già, si discute invece come renderla sempre più inefficace.