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 2023  settembre 24 Domenica calendario

Intervista a Giulio Scarpati

«Con la nostra neonata cooperativa di giovani attori, eravamo in un teatrino di Trastevere, dove era in programma il nostro spettacolo – racconta Giulio Scarpati —. Ma in sala non vedevamo arrivare nessuno, tanto che ci mettemmo a giocare a carte dietro le quinte per passare il tempo. E invece, meraviglia delle meraviglie, entra un unico spettatore, che era addirittura il critico teatrale dell’Unità, il compianto Aggeo Savioli. Allora mi precipito al bar, vicino al teatro, e telefono a casa, dicendo ai miei genitori che dovevano venire di corsa, insieme a tutto il resto della famiglia, per riempire almeno qualche altro posto: così fecero e lo spettacolo andò in scena».
E la recensione di Savioli come fu?
«Benevola... comunque noi non ci perdevamo d’animo, andavamo in giro anche nelle piazze di paese. Ricordo un borgo della Basilicata dove era la prima volta che i paesani assistevano a una rappresentazione teatrale: un ragazzino, non essendo abituato a stare zitto e fermo in platea, salì sul palcoscenico mentre stavamo recitando, afferrò un oggetto di scena e scappò via. Lo dovetti rincorrere per riaverlo indietro: sembrava uno spettacolo nello spettacolo. Oppure allestivamo rappresentazioni nelle carceri: in quello di Civitavecchia aiutammo i carcerati che reclamavano un confronto con l’allora sottosegretario al ministero della Giustizia, che era venuto proprio per assistere al nostro spettacolo...».
In che modo li aiutaste?
«L’autorevole funzionario era seduto in sala e noi, a sipario chiuso, dicemmo che non saremmo andati in scena finché non avesse ascoltato i detenuti, cosa che avvenne. Ci esibivamo anche negli ospedali psichiatrici e là, a volte, capitava qualche imbarazzante equivoco: era difficile distinguere, tra gli spettatori presenti, i medici dai malati di mente. Tuttavia, posso affermare con orgoglio che il mio primo spettatore importante l’ho avuto a 16 anni: era Pier Paolo Pasolini».
Per quale spettacolo?
«Mentre frequentavo ancora il liceo, mi ero iscritto al laboratorio diretto da Elsa De Giorgi, cara amica del grande scrittore. Per il saggio di fine anno recitavamo con la nostra insegnante le laudi umbre del Duecento. Io impersonavo San Giovanni, Elsa era la Madonna e fu lei ad avvertirci che era presente Pasolini: per me fu un autentico shock ma, stranamente, fu proprio Elsa ad avere un vuoto di memoria e, incredibile a dirsi, le andai in soccorso io che, avendo studiato bene l’intero copione, la abbracciai per sussurrarle all’orecchio le battute da pronunciare. L’emozione può giocare brutti scherzi. A me è capitato persino da semplice spettatore di un mitico attore».
Chi?
«Eduardo De Filippo. Erano i primi anni Ottanta e già calcavo regolarmente le scene e i set. Una sera vado ad assistere a un suo spettacolo, credo fosse una delle sue ultime apparizioni in palcoscenico. Al termine, mi presento nel suo camerino. Mi ero preparato un bellissimo discorso per fagli i complimenti, ma quando me lo sono trovato davanti, sono riuscito solo a esclamare: bravissimo!».
E lui?
«Mi guarda, sorride e risponde: grazie!... Che altro poteva dire? Mi sarei preso a schiaffi: volevo fare bella figura, quello intelligente con frasi appropriate, e invece feci la parte del cretino superficiale».
Una carriera, la sua, declinata fra teatro, cinema e televisione, ma iniziata per caso?
«Direi per passione, per istinto. Nessuno in famiglia mi ha influenzato, tuttavia sin da piccolissimo avevo momenti di follia: cantavo, ballavo, recitavo, mi mascheravo, mi piaceva intrattenere... Il caso, però, effettivamente avvenne quando avevo 12 anni. Abitavamo in un palazzo, a Roma, dove viveva un’attrice argentina, che aveva fatto amicizia con mia madre e, in quel periodo, stava allestendo uno spettacolo dove c’era bisogno di un bambino in scena. I miei genitori accettarono la curiosa proposta e per me era un divertimento: dovevo impersonare proprio un discolo che ne combinava di tutti i colori, faceva dispetti a tutti. Ero affascinato dagli attori, li osservavo, li spiavo mentre si truccavano, si travestivano nei camerini... Però la sera si faceva tardi e la mattina, andare a scuola, era un problema: ero sempre mezzo addormentato e quell’anno non ottenni una bella pagella. Tanto che, quando la compagnia chiese ai miei di potermi coinvolgere in un altro spettacolo, risposero di no».
Il caso volle anche che, dopo aver avuto Pasolini come spettatore, molti anni dopo lei fu nel film «Pasolini, un delitto italiano», dove si ricostruiva la vicenda del processo contro Pino Pelosi.
«Impersonavo l’avvocato Nino Marazzita che difendeva la famiglia Pasolini, e francamente mi è sempre rimasto un interrogativo irrisolto: com’è stato possibile che Pelosi possa aver ucciso, da solo, lo scrittore che era un uomo forte, agile...».
Il personaggio di Lele, nella fortunata serie «Un medico in famiglia», quanto ha influito sul suo successo mediatico?
«Tantissimo, non posso negarlo. Ancora oggi la gente che mi incontra mi dice che è cresciuta con quella fiction e ne sono contento. La famiglia che rappresentavamo all’epoca anticipava i tempi: impersonavo un vedovo con due figli da crescere, quindi gestivo il ruolo paterno e materno. Al mio fianco nonno Libero (Lino Banfi) mi aiutava nel mio non facile compito...».
Banfi, un compagno di scena insostituibile?

«Era divertente stare con lui anche dietro le quinte, ma era fissato con la sua “finta” dieta!».
Finta?

«Il set era a Cinecittà e i nostri camerini nei container. Nella pausa pranzo Lino mi faceva puntualmente vedere il vassoietto, da lui richiesto, con risicate pietanze. Ma un giorno, mentre mangiavo nel mio camerino, vedo entrare, da un ingresso secondario, un tizio con un vassoio gigante, con ogni sorta di prelibatezze, che si dirigeva verso il camerino di Lino: evidentemente non stava a dieta... di nascosto si faceva portare il suo “vero” pranzo!».
E con Claudia Pandolfi, che impersonava Alice?
«Proprio grazie a una scena con lei ho riscontrato la popolarità di Lele addirittura tra le forze di polizia. In una delle ultime puntate alle quali ho partecipato, prima di abbandonare il personaggio, c’era una scena in cui all’aeroporto di Fiumicino rincorrevo la donna di cui ero follemente innamorato, cioè Alice. Per raggiungerla e dirle “ti amo”, salto i tornelli... cosa che non si potrebbe fare. Molto tempo dopo, nella vita reale, con mia moglie stavamo per perdere l’aereo e correvamo all’impazzata per superare lo sbarramento e raggiungere il gate. I poliziotti presenti, che evidentemente si ricordavano quella scena vista in tv, mi apostrofarono perentori: stavolta non ci provi a saltare i tornelli! Scherzavano, ma mica tanto...».
Il successo televisivo ha costituito un pregiudizio nei suoi confronti come attore di cinema?
«Un po’ di pregiudizio c’era all’epoca: il cinema aveva un po’ di puzza sotto al naso nei confronti del piccolo schermo, era come avere la fedina penale sporca, cosa che ora è superata, per via delle piattaforme: ormai il cinema si vede più in tv che nelle sale, non è più tanto grave essere attore televisivo e cinematografico».
Tra i registi cinematografici, quello con cui ha lavorato meglio?
«Ettore Scola. Un grande autore e regista che ha fatto la storia del cinema, ovviamente molto severo: sul set parlava poco e ti faceva rifare una scena mille volte, finché non era convinto della tua interpretazione. Era la prima volta che lavoravo con lui ed ero abituato a registi, miei coetanei, con cui avevo confidenza, un rapporto alla pari. Nei primi giorni di riprese del film Mario, Maria e Mario mi sentivo a disagio, perché lui era taciturno. Così presi coraggio e gli dissi: Ettore, il nostro rapporto non funziona... E lui, nel suo aplomb serafico risponde: non sapevo che fossimo fidanzati... Scoppiai a ridere e da quella volta si ruppe la barriera tra noi, nacque una amicizia profonda. Durante una cena in trattoria, mi fece un omaggio, dedicandomi un ritratto, uno schizzo che ritraeva il mio volto, tratteggiato al volo su un foglietto, cui aggiunse la didascalia: un’espressione intelligente di Scarpati... La sua ennesima presa in giro».
Lei è spesso diretto da un’altra regista particolare: sua moglie Nora Venturini. È più facile lavorare, dato il rapporto di complicità, oppure...
«Non è più facile, perché quando lavoriamo non siamo i “coniugi” Giulio e Nora, ma Scarpati e Venturini. Nemmeno più difficile, tranne il fatto che l’ansia creativa della regista ci costringe spesso a degli autentici tour de force... ore e ore di prove, senza nemmeno il tempo per fare una pipì. Aggiungo che, quando lavoro con altri registi, a casa mi rilasso. Invece Nora me la ritrovo la sera a casa... e il lavoro non finisce mai!».
Sua mamma si ammalò di Alzheimer e lei le ha dedicato un libro: «Ti ricordi la casa rossa?».
«La casa rossa era quella di famiglia, che avevamo nel Cilento. Ho voluto raccontare tutte le difficoltà non solo delle persone colpite dalla malattia, che viaggiano in uno spazio siderale, ma anche dei familiari che le assistono e degli errori che, in buona fede, si commettono. Io ne ho commesso uno che non riesco a perdonarmi. Una volta la portai a Napoli, la città dov’era nata, nei luoghi della sua memoria, e quando andammo nella chiesa che frequentava da ragazzina, la vidi felice, quasi fosse rinata, avevo la sensazione che stesse meglio. Poi, usciti dalla basilica, lei mi disse: “C’è una chiesa come questa uguale a Napoli!”. Per me fu una doccia fredda e, stupidamente, le risposi: “Noi siamo a Napoli!”. E mamma ripiombò nello smarrimento più totale».