Domenicale, 24 settembre 2023
Sulla clemenza
Nel quarto atto della commedia shakespeariana Il mercante di Venezia, fa ingresso la intelligentissima Porzia, costretta a fingersi uomo per far valere la sua competenza giuridica. Sulla sua bocca il drammaturgo mette le parole che descrivono al meglio la clemenza: «(…) ha natura non forzata / cade dal cielo come pioggia gentile / sulla terra sottostante; / è due volte benedetta, / benedice chi la offre e chi la riceve; (…) sta sopra al dominio dello scettro, / ha il suo trono nel cuore dei re, / è un attributo di Dio stesso; / e il potere terreno si mostra più simile al divino / quando la clemenza mitiga la giustizia».
La parola clemenza, non solo in Shakespeare ma anche nella cultura contemporanea, è stata per lo più riferita alla pratica giurisprudenziale. Oppure la si è legata alla richiesta di clemenza, appunto, presentata ai sovrani, che così esercitavano la «inclinatio animi ad lenitatem», come la chiama Seneca nel suo De clementia.
Già a partire da questo trattato di filosofia politica, indirizzato al neo-imperatore Nerone, e da quanto Cicerone scrive nel De officiis, attribuendo a Cesare la virtù della clemenza, questa comincia a definirsi come qualità interiore che va oltre l’ambito giuridico. Ha a che fare, infatti, con la morale e con la vita sociale. Tanto che si può dire della clemenza quello che Norberto Bobbio ha scritto della mitezza: «Non è una virtù politica, anzi è la più impolitica delle virtù». È una virtù sociale, nel senso che la sceglie solo chi non è mosso dall’arroganza e dalla prepotenza del potere. La clemenza è il contrario del desiderio di sopraffare e di vincere a ogni costo, con la forza o con l’astuzia.
Ciò non porta però a vedere nella clemenza una forma di debolezza o di cedevolezza. Come sembra credere chi, anche nella gestione della cosa pubblica, trova molto più remunerativa la rozzezza rispetto alla clemenza. Soprattutto quando ci si rivolge a chi, per posizione o condizione sociale, non è in grado di alzare la testa e tantomeno di far sentire la propria voce.
Certo, in quanto esercizio di saggezza e di cura, la clemenza richiede la capacità – come esige la derivazione etimologica dal greco klino – di inchinarsi e di piegarsi per collocarsi all’altezza di occhi con gli altri. La persona clemente, prima di tutto, guarda negli occhi, oltre che nel cuore e nella storia, di chi gli sta di fronte. Atteggiamenti che sono tutt’altro dalle farneticazioni e spettacolini a favore di social, nei quali trova forma la tanto esibita epica del vincitore. Quella che quasi mai coincide con la saggezza di quanti sono chiamati a governare con serietà e ad amministrare con efficacia.