Domenicale, 24 settembre 2023
Facce e pulcini
nella mente di un pulcinoNeuroscienze. Nel suo ultimo libro, Giorgio Vallortigara compie un viaggio alle origini della conoscenza. Anche senza esperienza visiva i neuroni delle facce sono già codificati nel cervello di questi animaliGiorgio Vallortigaraadobestock In laboratorio. Il cervello dei pulcini è capace di rispondere a stimoli complessi dell’ambiente come i volti I miei collaboratori mi stanno chiamando al piano di sotto. Scendo in laboratorio dove c’è un pulcino steso su una specie di lettino, addormentato (anestetizzato, in effetti) davanti a un grande schermo di computer. Gli occhi però sono aperti e guardano le immagini che si succedono: faccine schematiche diritte e capovolte si alternano con altre visioni. Dal capo dell’animale escono dei fili che sono connessi a un microelettrodo sottilissimo che si addentra nelle profondità del cervello. Attorno si vedono monitor illuminati, e da un altoparlante si ode il crepitio (gli spike) di un neurone la cui attività è in corso di registrazione (i neuroni funzionano anche quando l’animale è, come in questo caso, profondamente anestetizzato).
Nonostante le abbia sentite innumerevoli volte, ancora non riesco a credere che queste raffiche crepitanti siano il rumore del pensiero. Stiamo cercando i neuroni dell’anima(tezza).
L’idea che potessero esistere neuroni capaci di rispondere selettivamente a stimoli complessi dell’ambiente come i volti era stata originariamente ipotizzata nell’Ottocento dallo psicologo William James, il quale si riferiva a queste ipotetiche cellule con il soprannome di «neuroni pontificali». L’ipotesi fu poi ripresa da vari altri studiosi, come il fisiologo Jerzy Konorski, che introdusse il termine di «neuroni gnostici». Oggi questi neuroni sono meglio conosciuti come «cellule della nonna», etichettatura suggerita dal neurofisiologo Jerome (Jerry) Lettvin all’interno di una storiella divertente da lui ideata, ispirata al romanzo di Philip Roth Il lamento di Portnoy, per deridere l’idea che concetti complessi possano essere rappresentati dall’attività di un singolo neurone. Nella storia di Lettvin, per liberarsi dalle sue ossessioni sulla madre prepotente, Portnoy, anziché a uno psicoanalista, decide di rivolgersi a un neurochirurgo, di nome Akakij Akakievi?m che ha scoperto nel cervello umano dei neuroni che rispondono unicamente alla vista della propria madre. Il dottor Akakievi? apre il cervello di Portnoy e rimuove tutte le cellule della madre. L’operazione si rivela un grande successo e, raccontava Letvin ai suoi studenti, il dottor Akakievi? decide di estendere la sua ricerca alle «cellule della nonna».
A metà degli anni Sessanta, il neuroscienziato Charles Gross scoprì dei neuroni che parevano possedere le caratteristiche delle cellule della nonna. Il suo lavoro era la continuazione degli studi iniziati qualche anno prima dai fisiologi David Hubel e Torsten Wiesel, che avevano trovato, nella corteccia visiva primaria dei gatti, neuroni che mostravano una risposta selettiva a stimoli assai specifici, come una barra orientata secondo una particolare angolazione o che si muove in una particolare direzione. Gross estese l’esplorazione delle proprietà dei neuroni a un nuovo territorio, la porzione inferiore della corteccia temporale.
All’inizio notò con disappunto che gli stimoli usati da Hubel e Wiesel non sembravano attivare questi neuroni. Un giorno però, come narra l’epopea del laboratorio, un ricercatore impegnato a rimuovere uno stimolo per sostituirlo con un altro passò inavvertitamente la sua mano davanti agli occhi della scimmia, ed ecco che dall’altoparlante uscì il suono di un’esplosione di attività elettrica (una raffica di spike). Lo stesso accadde quando il volto stupito del ricercatore si volse verso quello dell’animale. I neuroni deputati alla visione, sia negli esseri umani che nelle scimmie, sembrano rispondere selettivamente alla vista di una mano o di un viso.
Nel mio laboratorio ci siamo chiesti se le proprietà che sono associate all’animatezza (avere una faccia, essere semoventi, muoversi con moto biologico lungo l’asse antero-posteriore…) di cui vi ho parlato nei capitoli precedenti siano codificate nel pulcino appena nato a livello di singoli neuroni. Le registrazioni che abbiamo condotto fin qui mostrano in effetti un abbozzo di selettività di risposta agli stimoli che assomigliano a facce in varie regioni del cervello, anche se l’animale è privo di qualsiasi esperienza visiva: i neuroni delle facce sono già lì, come codici innati dei cervelli.
Nei neonati della nostra specie, come vi raccontavo, non è possibile, per ovvie ragioni, condurre un esperimento di perfetta deprivazione da ogni esperienza dei volti; nondimeno a sole quaranta ore di vita (in media) abbiamo potuto osservare con tecniche di elettroencefalografia una risposta selettiva ai volti.
L’altro aspetto che dobbiamo capire è se vi sia selettività già a livello dell’analisi percettiva o se si tratti piuttosto di un particolare pregio che viene attribuito a certi indizi visivi dalle aree cerebrali della rete neurale responsabile del comportamento sociale, come ad esempio il setto laterale.
Ecco a un dipresso come potrebbero andare le cose. Consideriamo, per esempio, la predisposizione ad avvicinare uno stimolo che si muove con variazioni di velocità anziché uno che si muove con velocità uniforme, un indizio probabile del fatto che si tratti di un agente animato. Sappiamo che nel tetto ottico vi sono neuroni che rispondono al movimento, alla direzione del movimento e alla velocità di uno stimolo. Se i neuroni del setto laterale rispondessero con una maggiore frequenza di scarica a uno stimolo che cambia velocità rispetto a uno che si muova con velocità costante, avremmo bello e pronto un «rilevatore di animatezza». In alternativa i segnali visivi con particolare rilievo biologico potrebbero venire elaborati direttamente nel setto, anziché essere raccolti inizialmente da altre regioni del cervello. Per scoprirlo dobbiamo continuare ad auscultare i suoni dei neuroni, il rumore dei pensieri.