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 2023  settembre 23 Sabato calendario

Sull’Irlanda di ieri e di oggi

John Banville appare sullo schermo per questa chiacchierata su Zoom dal suo studio nella casa di Howth, penisola a nord di Dublino sul Mar d’Irlanda, e se per gli inglesi sarebbe l’ora del tè, per lui irlandese doc è l’ora di un bicchiere di bianco. Quello che sta sorseggiando era il preferito di sua moglie, scomparsa da due anni. Dice di bere in suo onore. Io dico che preferisco il rosso, ma che non capisco granché di vini. Lui mi consiglia il suo preferito: «Vino Nobile di Montepulciano». Banville è uno dei grandi autori contemporanei del mondo anglofono, vincitore del Booker Prize nel 2005 con Il Mare, ora in libreria con Il corpo della ragazza, un giallo della serie che ha per protagonista l’anatomopatologo Quirke. Dice subito una cosa molta bella: leggere e scrivere per lui è entrare nella realtà: «Mi piace ascoltare musica su Bbc3 e divento matto quando dicono: rilassatevi e fuggite dalla realtà con queste belle note. L’arte non è fatta per questo. L’arte è fatta per farti sentire vivo, per sentire la realtà del mondo. Non fa nient’altro. Non porta la pace, non ti fa sentire più bello o più ricco. Quando guardi un bel quadro, ascolti bella musica, leggi una poesia o un bel romanzo, anche inconsciamente, ti connetti con la parte più reale della vita».Sono più di 50 anni che scrive. Ha capito perché gli esseri umani hanno così bisogno di nutrirsi di storie?«Siamo tutti bambini che hanno bisogno di una storia prima di andare a dormire. Poi pretendiamo di essere adulti, ma è un desiderio naturale quello di ascoltare il racconto di altri mondi, di altre persone, di altre vite».È rimasto quel bambino?«Mi sono sempre raccontato storie. Anche quando ero un teenager e portavo a spasso il cane di mia madre nei campi. E mi ponevo delle domande e mi davo anche delle risposte. Leggere un romanzo è un po’ parlare con i nostri pensieri».Il potere oppressivo della Chiesa cattolica sull’Irlanda è un aspetto dei suoi romanzi. Poi c’è l’oppressione dell’Impero britannico, su cui l’Irlanda ha fondato la propria voce in letteratura.«Mettiamola così: la prima volta che sono andato nell’Europa dell’Est negli anni Ottanta, prima della caduta del muro di Berlino, e ho girato paesi come la Cecoslovacchia e l’Ungheria, ho pensato: questa è l’Irlanda. Qui hanno il Partito Comunista che comanda sulle loro vite dalla culla alla tomba e noi abbiamo la Chiesa Cattolica. Io sono cresciuto in una società molto depressa, e impoverita. In termini di soldi ma anche di spirito. Speravo che i miei figli e nipoti non dovessero crescere in un posto del genere».Oggi?«Stiamo andando bene. Meglio di quello che avrei mai immaginato. Ricordo il giorno del 2015 del referendum sul matrimonio tra persone dello stesso sesso: 60 per cento pro e 40 contro. La gente era per le strade a festeggiare. Mi guardavo intorno e pensavo: non riconosco più questo paese. È cambiato tutto negli anni 90, gli anni del boom economico, quando sono arrivati molti immigrati e questa è diventata una società multiculturale. Pensavo che ci sarebbero stati episodi di razzismo, invece non è successo. Sono cresciuto pensando all’Irlanda come un’isola depressa in un mondo felice, adesso mi pare il contrario, siamo noi l’isola felice in un mondo depresso».Dagli inglesi avete ereditato la lingua inglese.«L’irlandese è una lingua molto poetica, molto più sensibile rispetto all’inglese, che ci è stata imposta secoli fa. L’inglese è come il latino nell’Impero Romano: era una lingua diretta, di comando e di istruzioni. E così abbiamo creato una lingua, che è inglese, ma con molte sfumature e soprattutto una sensibilità diversa. Basta pensare a Jonathan Swift, Joyce, Beckett. George Orwell diceva che la prosa è un paio di occhiali attraverso cui guardare, per noi è una lente e le lenti distorcono ciò che si vede».