La Lettura, 23 settembre 2023
Il nuovo romanzo di Ken Follett
Mercoledì scorso Ken Follett era a una cena speciale: alla Reggia di Versailles, nel Salone degli Specchi, invitato da Emmanuel Macron al ricevimento in onore di re Carlo d’Inghilterra. Non è un caso che lo scrittore britannico fosse lì a gustare le aragoste imbandite dalla chef stellata Anne-Sophie Pic: perché Follett non solo è da sempre un francofilo, versato nella lingua di Flaubert (cosa rara tra i suoi connazionali), ma ha da poco preso una decisione clamorosa, ossia chiedere la cittadinanza francese. «L’ho fatto perché odio la Brexit – racconta durante un’altra cena, questa volta vicino a Manchester, mentre degusta un calice di Brunello di Montalcino, uno dei suoi vini preferiti – e la odio non solo per motivi economici, per i danni che ha provocato, ma per via di tutte quelle persone che qui dicono che non vogliono essere europee, mentre alla maggioranza degli inglesi l’Europa piace».
Follett ha sempre avversato l’uscita dalla Ue e ammette che la richiesta di cittadinanza francese è il punto di approdo di un percorso avviato con il «Tour dell’Amicizia», quando nel 2019, assieme ad altri scrittori, attraversò il continente per testimoniare la vicinanza all’Europa della cultura britannica. Prima di presentarsi al colloquio con i funzionari dell’ambasciata francese a Londra, qualcuno gli aveva detto che avrebbe dovuto cantare la Marsigliese: allora lui l’ha imparata a memoria (ed è un testo lungo) ed è arrivato pronto a intonarla, solo per scoprire (forse un po’ deluso) che non era vero.
Per il futuro, Follett non nutre grandi speranze, non crede che i laburisti, dati vincenti alle prossime elezioni, si adopereranno per rientrare nell’Ue, piuttosto si riavvicineranno gradualmente: «Si può riconoscere un errore – dice – ma poi ci vuole tempo per rimediare».
Da aspirante francese qual è, Follett segue con attenzione le vicende letterarie della sua patria d’adozione: e ha opinioni ben precise in materia. «Di Houellebecq ho letto solo Sottomissione: è terribile! Chissà perché non hanno chiesto anche a me di fare un porno come a lui...». Quanto al Nobel a Patrick Modiano, «non se lo meritava: sì, scrive bene, ma il Nobel dovrebbe andare a qualcuno che cambia il mondo della letteratura. Com’è possibile che uno come Philip Roth muoia senza averlo ricevuto e invece lo danno a Modiano?». Annie Ernaux per fortuna se la cava – il premio a lei è un giusto riconoscimento, ammette.
Fuori dal ristorante dove si lascia andare a queste confessioni è parcheggiata la Rolls Royce modello Ghost a bordo della quale gira l’Inghilterra, con targa personalizzata (fra lettere e cifre si legge «Follett»): un gingillo che costa fra i 300 e i 400 mila euro e che sta lì a testimoniare i quasi 200 milioni di copie vendute dai suoi libri, che ne fanno uno degli autori di bestseller più popolari (e ricchi) del mondo.
Follett è qui, nel Nord dell’Inghilterra, per presentare la sua ultima fatica letteraria, Le armi della luce (in originale The Armour of Light, l’armatura di luce), quinto volume della saga costruita attorno all’immaginario villaggio di Kingsbridge che prese l’avvio con I pilastri della Terra: questa volta siamo alla fine del Settecento, agli albori della Rivoluzione industriale, i cui sconvolgimenti vengono raccontati sullo sfondo delle guerre napoleoniche. Come sempre, Follett si è immerso nelle ricerche per preparare il romanzo: ha trascorso una settimana sul campo di battaglia di Waterloo, ma soprattutto è venuto a studiare i filatoi di cotone a Manchester, dove prese le mosse la nuova civiltà delle macchine.
«Volevo toccare con mano gli strumenti della Rivoluzione industriale – dice mentre ci guida attraverso Quarry Bank, una ex fabbrica di cotone trasformata in museo —. Il lettore si rende subito conto se non sai di cosa stai parlando». Follett si siede a un arcolaio e si mette lui stesso a filare il cotone, dimostrando notevole perizia: «Potrei farci i soldi con questo...», ridacchia.
Ma quello che lo affascina davvero sono i telai meccanici, al cui fragore sorride estasiato: la tecnica, anche primordiale, riesce a soggiogarlo. «Ecco come appariva allora l’alta tecnologia!». Follett si cala letteralmente nel ventre oscuro e cavernoso dell’industrializzazione, si aggira fra le macchine che ansimano e sbuffano: «Lo trovo così drammatico – sottolinea – immaginare la fatica della gente, che lavorava qui 14 ore al giorno: guadagnavano molto più che con il lavoro dei campi, ma ne pagavano il prezzo, soggetti com’erano al mercato del cotone».
E infatti Le armi della luce racconta di un gruppo di famiglie collegate tra loro, le cui esistenze vengono stravolte dalla nuova era meccanizzata: i personaggi sono coinvolti nelle rivolte per il pane, negli scioperi e nelle violente ribellioni contro l’arruolamento forzato nell’esercito. «Ciò che mi attira come narratore è che la vita della gente comune venne messa sottosopra dall’avvento delle macchine: le storie sono sempre di individui, ma quando mi sono messo al lavoro su questo tema, mi sono reso conto che dovevo capire queste macchine».
Sullo sfondo, allora come oggi, la guerra in Europa. «L’élite al potere era terrorizzata dalla Rivoluzione francese, tutti i re e gli imperatori temevano che la ghigliottina arrivasse da loro: così hanno assalito la Francia e hanno provato a conquistarla per restaurare la monarchia. Ma conquistare la Francia si rivelò un po’ più difficile di quello che pensavano, in parte perché i francesi avevano forse il più grande generale di tutti i tempi, Napoleone. Dunque una guerra che avrebbe dovuto essere rapida (tutti quelli che cominciano le guerre pensano sempre che sarà una guerra rapida) durò 23 anni: tanto ci volle per sconfiggere Napoleone. Per questo il climax del mio libro è la battaglia di Waterloo. Mentre la guerra infuriava, tutte le difficoltà della Rivoluzione industriale divennero ancora peggiori: il commercio venne danneggiato, il prezzo del pane raddoppiò tanto che scoppiò la rivolta delle donne, che non riuscivano a dar da mangiare alle loro famiglie. La guerra, allo stesso tempo della Rivoluzione industriale, creò questo tremendo conflitto sociale: la classe dominante inglese si spaventò davvero quando la folla tirò pietre contro la carrozza del re, scandendo “pane e pace”. Venne introdotta una legislazione repressiva, che però alla fine venne abrogata, e i sindacati vinsero la loro battaglia: questa è la storia che mi piace, quando alla fine vincono i buoni».
Una visione ottimistica del progresso umano, in fin dei conti: «È vero, ma viene dalla scrittura di storie su gente che lotta per la libertà e dalla comprensione che non è mai stato un cammino facile: migliaia di persone sono morte e per loro deve essere sembrata una causa senza speranza. Se guardi al presente puoi pensare che tutto vada in malora, ma se guardi alla storia vedi che le battaglie per la libertà negli ultimi mille anni hanno ottenuto cose enormi».
Questi cinque libri della saga di Kingsbridge, più la Trilogia del secolo, sostiene Follett, sono di fatto la cronaca degli ultimi mille anni della civiltà occidentale: «Non lo avevo programmato, ma guardando indietro vedo che questo corpus ha una forma e che il tema è la gente che lotta per la libertà – la libertà religiosa, il voto alle donne, i diritti civili... Le mie storie hanno un lieto fine perché in generale abbiamo vinto quelle battaglie. Quando scrivo delle persone che hanno combattuto e a volte sono morte per queste libertà, provo a enfatizzare, specialmente per quelli che non hanno il senso della storia, l’importanza delle libertà e delle battaglie per conquistarle».
Quando gli si fa notare che l’idea della storia come storia della libertà era già di Benedetto Croce, Follett risponde di essere «affascinato dall’apprendere che c’era un filosofo che è giunto alla stessa conclusione. Bene, bene, bene, non ne avevo proprio idea!». Non che sia partito con questa concezione programmatica, «è qualcosa che ho notato riguardando indietro al mio lavoro: come spesso la questione della libertà sia il centro drammatico dei miei romanzi. Non è che mi sia seduto a tavolino e abbia detto: scriverò la storia della libertà. Pensavo solo a scrivere storie eccitanti». Però alla fine ha riconosciuto un filo rosso nel lavoro: «Ora so che questa idea che la libertà è al cuore della storia non è una mia propria idea: lo ha già detto Benedetto Croce!».
Se è per questo, don Benedetto diceva pure che la storia è sempre storia contemporanea: nei libri di Follett è fin troppo facile scorgere riferimenti all’attualità. «Non è un fatto consapevole – spiega – non cerco paralleli, ma quelli sono sempre lì. Suppongo che sia inevitabile: quando pensiamo alla storia, pensiamo dal punto di vista di una persona moderna. Come potrebbe una persona moderna pensare alla storia se non attraverso la lente del XXI secolo? È impossibile staccarsi da tutti gli atteggiamenti e i pregiudizi e la conoscenza che hai del presente. Questo è ciò che fa di te una persona e un pensatore: ti focalizzi su un’epoca del passato ma la vedi attraverso gli occhiali del XXI secolo».
La storia è anche maestra di vita e Follett si vede un po’ come un educatore: «Puoi imparare dai libri di storia, ma la maggior parte della gente non li legge: mettendolo nella forma di un romanzo popolare, rendi questo tipo di pensiero accessibile a tutti. Il mio principale intento non è pedagogico, è un effetto collaterale. I lettori cercano conoscenza, amano apprendere cose, anche se non sono intellettuali, e questo è il bonus dei miei libri: li leggono come romanzi, ma alla fine hanno appreso qualcosa».
Un parallelo inevitabile è fra la Rivoluzione industriale e l’attuale avvento dell’Intelligenza Artificiale, che promette altrettanti sconvolgimenti: «Ci sono sempre vincitori e vinti quando c’è una rivoluzione tecnologica – ammette —. È dura per i vinti, come lo fu per quelle persone che si guadagnavano da vivere nella loro casetta filando il cotone. Le vite di alcune persone vennero danneggiate, ma altre persone trovarono nuove opportunità: accadrà ancora con l’Intelligenza Artificiale. Un ulteriore parallelo è che la gente ha paura, così come aveva paura allora delle nuove macchine, perché non le capiva e diceva che c’era il diavolo lì dentro: questo accadrà anche con l’IA, meno cose saprà e più la gente avrà paura».
Lui però, come scrittore, non teme di essere sostituito prima o poi da un robot: «L’Intelligenza Artificiale può certamente rimpiazzare i cattivi scrittori, ma la gran parte del lavoro creativo comporta il pensiero laterale: segui una storia, ma all’improvviso prende una piega inaspettata. Ciò che artisti e musicisti fanno è creare aspettative e poi sfidarle e fare qualcosa di meglio: non riesco a immaginare l’IA fare questo. Un esempio è la canzone dei Beatles I wanna hold your hand (qui si mette a cantare, anche abbastanza intonato) che parte in un certo modo ma poi c’è un accordo del tutto diverso, come un bang: l’IA avrebbe potuto scrivere la prima parte, ma non lo sviluppo, che rende quella canzone unica».
Ma se l’avvento dei robot non è la minaccia più imminente, la guerra in Ucraina pare destinata a durare come quelle napoleoniche: «Non riesco a immaginare come possa finire. Non vedo come gli ucraini possano vincere, ma dall’altro lato non vedo come i russi possano vincere, perché gli ucraini sono forti nel difendersi. Dunque come finisce? È ancora più difficile immaginare un trattato di pace: questi sono sempre basati sulle linee esistenti al momento della fine dei combattimenti, ma è difficile immaginare che gli ucraini acconsentano che i russi tengano ciò che hanno conquistato. È una situazione orribile e potrebbe essere come le guerre napoleoniche, o come il Vietnam. Ho cominciato questo romanzo prima dell’inizio della guerra, ma nel libro ci sono una guerra, una rivoluzione tecnologica e la crisi del costo della vita: quasi una profezia, fa venire la pelle d’oca».