La Lettura, 23 settembre 2023
Che cosa nascondono le alleanze
Nel suo recente libro La pace è finita (Feltrinelli), Lucio Caracciolo suggerisce di abolire la parola «alleanza». La ragione è che ogni buon specialista di geopolitica sa che le cosiddette alleanze sono finzioni che coprono rivalità più o meno acute, da cui ciascuno degli «alleati» cercherà sempre di trarre i maggiori vantaggi possibili. Quando ero ancora ai primi balbettii dei miei studi geopolitici, la cosa mi fu presentata con un’immagine molto nitida: un alleato ne abbraccia un altro con tale foga e passione da impedirgli di respirare.
Intendiamoci: è vero che, sul terreno della politica, non esiste amicizia ma solo competizione e rivalità; tuttavia, competizione e rivalità hanno sempre gradi di intensità diversi: quelle che chiamiamo «alleanze» sono combinazioni temporanee di Paesi che, pur essendo e restando rivali, hanno altrove antagonisti più «intensi», cioè più immediati e/o più pericolosi, con cui è possibile fare i conti solo mettendo le forze in comune. Ma questo non significa che le rivalità tra membri di una coalizione siano messe da parte; anzi, possono servire a regolare definitivamente conti in sospeso tra i cosiddetti alleati. L’esempio più classico è quello della translatio imperii tra Regno Unito e Stati Uniti: il gigante americano riuscì a scalzare il gigante britannico dal podio di potenza egemonica mondiale nel corso di due guerre (mondiali) combattute da alleati. L’abbraccio americano fu così appassionato che i britannici ne furono soffocati.
Ai nostri giorni – si è appena svolta la 78ª Assemblea generale dell’Onu – assistiamo a un revival di «alleanze» di ogni sorta, con una proliferazione di sigle talmente vorticosa da far girare la testa anche all’osservatore più attento: G7, G20, Brics, Ocs, Nato, Csto, Quad... Il 16 e 17 settembre si è svolta all’Avana, sotto gli auspici del dittatore locale, la conferenza del G77, un pateracchio di 134 Paesi per la maggior parte incapaci di mantenere l’ordine in casa propria (eccetto in caso di ordine poliziesco), ma spavaldi nel rivendicare nientemeno che un «nuovo ordine mondiale».
Si noti tra l’altro che nessuno di questi club si presenta ufficialmente come un’alleanza. Persino la Nato, che spesso chiamiamo per comodità «Alleanza atlantica», non è formalmente un’alleanza ma un «trattato» (la sua sigla significa infatti Organizzazione del trattato dell’Atlantico del Nord) per la semplice ragione che, per ottenere il via libera del Congresso americano nel 1949, il segretario di Stato Dean Acheson dovette aggirare la tradizionale ostilità dei suoi concittadini per tutto ciò che sembrasse seppur vagamente impegnare gli Stati Uniti in un’alleanza formale e permanente.
Vediamo dunque quali sono gli scopi (dichiarati e non) dei più famosi tra questi club, e quali rivalità interne nascondono (o cercano di nascondere).
Il G7 è, si potrebbe sintetizzare, il club delle vecchie potenze che hanno dominato (chi molto di più, chi molto di meno) il mondo negli ultimi secoli, e che hanno il comune interesse di cercare di ritardare il più possibile il loro inevitabile declino di fronte all’emergere di nuove potenze. Nacque infatti dopo lo shock petrolifero del 1973 e la recessione del 1974, quando la convinzione di poter continuare a dominare per sempre cominciò a vacillare. Nato come «gruppo informale di discussione» (definizione meno impegnativa possibile), il G7 ha visto la sua ragion d’essere aumentare d’importanza con il tempo: sommando il prodotto dei Paesi del G7 e di quelli di un ipotetico E7 (gli «Emerging Seven» che, secondo la rete multinazionale di imprese fornitrici di servizi PwC, sarebbero tra le prime dieci potenze economiche nel 2050: Cina, India, Brasile, Indonesia, Turchia, Messico e Nigeria), nel 1975 il G7 pesava nove decimi del totale, nel 2000 quattro quinti, e oggi pesa meno di due terzi, perdendo posizioni ogni anno che passa. Al suo interno i pesi economici e politici dei vari Stati sono alquanto sperequati, e i loro singoli interessi divergono più spesso di quanto non convergano; ma la loro ragione di restare uniti – cercare di salvare il salvabile delle loro prerogative e dei loro privilegi – è molto forte, perché perdere quel che si ha è molto più doloroso che dover conquistare ciò che non si ha ancora.
Il G7 è spesso identificato nella terminologia spiccia e approssimativa degli osservatori più pigri con il cosiddetto «Occidente» (con scarsa cognizione geografica, visto che il Giappone fa parte del G7) o «Nord globale» (in questo caso in spregio all’aritmetica, visto che a nord della linea tracciata da Willy Brandt nel 1980 per dividere, appunto, il «Nord» dal «Sud», ci sono 52 Paesi, Russia inclusa, e non sette), o quello che, ai tempi della guerra fredda, era chiamato «imperialismo» (le mode ideologiche e terminologiche passano, ma la realtà della competizione internazionale resta).
Queste sciatte catalogazioni non sono molto utili per capire che cosa succede nel mondo, proprio perché fanno astrazione dal fatto che, all’interno del cosiddetto «Occidente» o comunque lo si voglia chiamare, vi sono interessi diversi, a volte contrapposti, a volte ostili. Nondimeno, per la ragione di cui sopra, l’interesse che tiene uniti i Paesi del G7 è molto più forte dell’interesse che tiene uniti i Paesi del proteiforme «Sud globale», che sia nella versione dei Brics, o dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (Ocs), o anche del fatuamente ambizioso G77.
I vari club delle potenze emergenti sono molto più laschi perché ambiscono a ottenere quel che ancora non hanno, cioè una voce in capitolo per definire le nuove regole delle relazioni internazionali. La loro momentanea concordia è ancora più volatile, non soltanto perché le regole che vuole la Cina non possono essere le regole che vuole, mettiamo, il Kenya, ma anche e soprattutto perché, nel corso della storia, non è mai successo che le regole siano state definite da un consesso di capi di Stato riuniti due giorni ogni anno, ma sempre dal consesso dei capi degli Stati vincitori di guerre colossali che hanno imposto nel sangue le loro regole ai vinti. Inoltre, tra gli stessi membri fondatori delle due più famose organizzazioni del «Sud globale» – l’Ocs e i Brics – non vi sono solo interessi diversi e a volte conflittuali, ma strange bedfellows («strani compagni di letto») , come dicono i nostri amici d’Oltremanica.
L’Ocs è stata fondata nel 2001 dalla Cina e dalla Russia – due irriducibili rivali geopolitiche almeno dall’Ottocento – sostanzialmente per cercare di evitare di farsi la guerra per il controllo dell’Asia centrale, che è nella sfera di influenza di entrambe; e infatti, tra i membri fondatori furono cooptate proprio le cinque repubbliche uscite dall’Urss nel 1991 (Kazakistan, Kirghizistan, Uzbekistan, Tagikistan e Turkmenistan), oggetto del contendere. Nel successivo allargamento, sono entrati due altri ancora più improbabili bedfellows: India e Pakistan; Mosca avrebbe voluto l’India – irriducibile rivale geopolitica della Cina – per controbilanciare il peso di quest’ultima; al che Pechino avrebbe replicato esigendo l’ingresso del Pakistan, fidato sodale e ancora più irriducibile rivale dell’India. Il successivo ingresso dell’Iran, nel luglio di quest’anno, dovrebbe di nuovo rafforzare la Cina, considerando che la Russia è molto mal vista nel Paese, di cui, nell’Ottocento, ha perfino annesso porzioni del territorio, tentando poi di prenderne altri due pezzi nel 1946.
L’India è anche uno dei membri fondatori dei Bric nel 2009 (prima che diventassero Brics, con l’ingresso del Sudafrica l’anno successivo), un forum di consultazione in cui siede anche lì a fianco della rivale Cina e dell’amica Russia. Dopo anni di oblio, i Brics sono tornati in auge sospinti dalla campagna di propaganda «anti-occidentale» di Mosca: molti Paesi vi vedono l’occasione per trovare un’alternativa all’abbraccio di Washington, se non altro acquisendo più potere negoziale. In ogni caso, a tirare le fila non sarà certo la Russia, indebolita dalla sconsiderata invasione dell’Ucraina, ma la Cina, che ha imposto l’allargamento a sei nuovi Paesi a una molto riluttante India. Tra l’altro, l’ingresso (oltre all’Argentina) di Arabia Saudita, Egitto, Emirati Arabi, Etiopia e Iran, dove torture, stupri ed esecuzioni sono strumenti ordinari di potere, non aiuterà certo la stella della sedicente «più grande democrazia del mondo» a brillare.
New Delhi vorrebbe giocare un ruolo guida del «Sud globale» (improbabile, data la sua scarsa penetrazione economica) giocando la carta del cosiddetto multi-alignement, mettendo cioè i piedi in tutte le scarpe. Il che non sorprende perché, se l’India dovesse contare sulla Russia per controbilanciare la Cina, sarebbe messa davvero male. Quindi si «multi-allinea», e prende assicurazioni più serie contro Pechino per esempio partecipando al Quad, il dialogo quadrilaterale con Stati Uniti, Giappone e Australia – con tanto di esercitazioni militari (le ultime in agosto) – creato precisamente con lo scopo di accerchiare la Cina.
Il primo ministro Narendra Modi si fa corteggiare, ottiene la standing ovation del Congresso degli Stati Uniti, è ricevuto con onori e regali sia da Emmanuel Macron che da Vladimir Putin e quasi ovunque metta piede. È un po’ la vecchia solfa dei «non-allineati», che giocavano sulla rivalità tra Stati Uniti e Unione Sovietica per ricevere attenzioni (e soldi) dagli uni e dagli altri. Ma è una tattica che mostra la corda, perché a forza di voler piacere a tutti si finisce per non piacere più a nessuno o, nella migliore delle ipotesi, per essere considerati inaffidabili.
L’India ha anche ospitato l’ultima riunione del G20, una nuova occasione per presentarsi come il paladino del «Sud globale». Il G20 fu creato nel 1999 per offrire un forum ai Paesi emergenti che non avevano posto nel G7, ma sempre sotto l’egida di quello che si chiamava il «Washington Consensus», cioè un sistema di regole dettate da tre organismi con sede a Washington (il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale e il dipartimento del Tesoro americano). Oggi il «Washington Consensus» ha perso importanza e popolarità, e quindi il collante che teneva insieme quel consesso di preteso multilateralismo sta evaporando. Prova ne sia l’assenza di Xi Jinping al G20 di New Delhi (che è anche un modo di fare un dispetto all’India) e le crescenti difficoltà a elaborare il documento finale, che poi è l’unica cosa che interessa in questi vertici. I dirigenti posano per le foto di gruppo, ma il lavoro vero è dietro le quinte: duecento ore di negoziati non-stop, trecento incontri bilaterali e quindici bozze diverse, secondo il «Guardian», per produrre un documento che l’«Indian Express» definisce un capolavoro di «ambiguità creativa».
Così, l’ultimo giro di giostra del multilateralismo avrebbe finito con il mettere il destino del mondo nelle mani delle spericolate acrobazie stilistiche di un piccolo esercito di ignoti ma talentuosi retori. Se non sapessimo che è una finzione escogitata per accontentare tutti, ci sarebbe di che preoccuparsi.