La Lettura, 23 settembre 2023
Nanni Moretti a teatro regista della Ginzburg
Domenico Scarpa
Il palco del Teatro del Vascello, a Monteverde Vecchio, è rialzato un dieci centimetri scarsi rispetto alla platea. A fine prova di ciascuno dei due atti di Fragola e panna, e a fine prova di Dialogo che è invece un atto unico, Nanni Moretti sale quel gradino, siede sulla scena e chiama gli attori intorno a sé. Copione alla mano, pagina dopo pagina segnala ogni scarto anche minimo dai due testi di Natalia Ginzburg. Lo fa, con attenzione e con calma, in un silenzio completo, notando e correggendo i salti e i cambiamenti nelle battute ma soprattutto le aggiunte di parole-zeppa per supplire ai vuoti di memoria: una congiunzione, un possessivo, un pronome personale di troppo: tutto da eliminare.
A Monteverde Vecchio, qui a Roma, dove Moretti abita, c’è anche la sua casa di produzione Sacher con sala cinematografica annessa e ci sono i negozi che frequenta ogni giorno: l’edicola, le poste, il bar. È naturale che abbia scelto nei paraggi anche il teatro dove mettere in prova le due commedie: «Alla bella età di settant’anni ho deciso di fare la mia prima regia teatrale», mi aveva detto al telefono, e la prima volta che l’ho incontrato, in maggio e ovviamente a Monteverde, sulle tre frasi che in due ore di conversazione avrà dedicato alla Ginzburg, una è stata questa: «Fedeltà al testo nei minimi particolari: porterò in scena quelle due commedie così come sono state scritte, tutto qui», e subito veniva in mente Barbora Bobulova che nel Sol dell’avvenire cambia le battute del dialogo politico-drammatico con Silvio Orlando stravolgendolo in scena d’amore.
Nessun pericolo del genere al Vascello: la fedeltà al copione è addirittura interpuntiva. Soprattutto le parole in eccesso è come fossero aghi, lo sente il regista Moretti ma lo avvertono anche le quattro attrici e l’unico attore che formano la compagnia. La partitura sonora della Ginzburg è così limpida e precisa che con l’andare delle prove quei minimi buchi si vanno riempiendo da sé, le escrescenze verbali vengono piallate via, e altrettanto succede con le intonazioni; quello di Moretti regista teatrale è tutto lavoro in levare: evitare le sottolineature, smorzare, smussare, e ne emerge non la piattezza ma al contrario il ritmo, ne emerge quella musica per cui la voce della Ginzburg suona inconfondibile sulla pagina così come a teatro.
«Mi piace scrivere sotto tono. Non solo mi piace, ma è la sola cosa che so fare. Non so fare altro». Questa dichiarazione d’autore vale per tutta l’opera di Natalia Ginzburg ma in modo speciale per le sue commedie, undici in tutto: la prima, famosa al punto che il titolo è passato in proverbio, Ti ho sposato per allegria, è del 1965, mentre l’ultima, brevissima e quasi sconosciuta (peccato, visto che è uno squarcio fulmineo sulla violenza non solo psicologica contro le donne), Il cormorano, è del 1991, ultimo testo creativo scritto a pochi mesi dalla scomparsa. Sorprendendosi lei per prima, la Ginzburg comincia a scrivere commedie poco dopo aver pubblicato quel libro irripetibile che è Lessico famigliare: un’autobiografia che siamo invitati a leggere come un romanzo, una vicenda privata che contiene trent’anni di storia italiana, un’opera narrativa che inalbera un titolo saggistico perché la narrazione è intessuta sulle parole e frasi d’uso di un nucleo di persone legate, oltre che dall’albero genealogico, dalle origini ebraiche e dall’avversione al fascismo.
Il Lessico è irripetibile anche perché è un’autobiografia dove l’io che narra, onnipresente come sguardo e intonazione di voce, compare poco come personaggio attivo. Ciò malgrado, dopo l’uscita del libro (1963) la Ginzburg sente di aver consumato le risorse del pronome «io» e reagisce scrivendo commedie, testi cioè dove gli «io» sono tanti ma nessuno è il suo. Benché fino a un momento prima fosse certa di non essere capace né disposta a scrivere per il teatro, produce otto commedie di fila nei dieci anni che separano il Lessico dal romanzo successivo, Caro Michele, e tra quelle otto Moretti ha scelto le due che formano lo spettacolo Diari d’amore, suo il titolo: Fragola e panna, del 1966, e Dialogo, del 1970.
«Più passano gli anni e più ho difficoltà a commentare il mio lavoro». L’affermazione di Nanni Moretti vale per i film e vale anche per questa regia. A parte metterle in scena, Moretti non se la sente di dire nulla né su queste due commedie né sulla loro autrice. A cose fatte, la sua scelta fra i testi sembra logica e perfino inevitabile, come se gliel’avesse suggerita un’intelligenza tanto peculiare quanto sottile. Di fare spoiler non è proprio il caso, ammesso che le trame della Ginzburg si possano riassumere senza distruggerle. Basti dire che, in vita di lei, Fragola e panna è stata la più sfortunata fra le sue commedie, mai allestita in teatro: ed è una vicenda livida, cruda, stracciata, a rasoiate continue di cattiveria e disperazione, mentre Dialogo, tutta filata come uno sgorgo di parole e di realtà, è stata sempre, dopo Ti ho sposato, la sua commedia prediletta, ed è l’autrice a dichiarare che «è difficile parlarne proprio perché non succede quasi nulla, e tutto è in quello che si dicono i due personaggi, due giovani coniugi, per un’ora da soli in una stanza da letto. La drammaticità della situazione sta nel fatto che qui c’è una donna che vuole dire al suo partner una cosa che non riesce a dire».
La ragione vera per cui sarebbe non soltanto dannoso ma inutile raccontare questi intrecci è che la massima parte di quello che succede, si indovina o si deduce, sta sotto e dietro le parole pronunciate in scena. È la struttura a produrre questo effetto, ed è di nuovo l’autrice ad avvertirci: «Nelle mie commedie, in tutte, ci sono dei personaggi di cui si parla molto e che non compaiono mai. Tacciono, essendo assenti. Così finalmente c’è qualcuno che tace». In questo campo, Fragola e panna e Dialogo sono gli esperimenti più complessi che Natalia Ginzburg abbia mai tentato. Al centro del primo atto di Fragola e panna ci sono due donne, una giovanissima, Barbara, e l’altra matura, Flaminia, che per la maggior parte del tempo parlano di un uomo assente: Cesare, avvocato, marito di Flaminia e con una storia agli sgoccioli con Barbara. Nel secondo atto scompare Barbara, compare Cesare, rimane costante in scena Flaminia e non si farà che parlare di Barbara fino alla battuta conclusiva. Dialogo mantiene in scena per tutto il tempo (di mattina, e a letto) due coniugi, Francesco e Marta, i quali convocano nei loro discorsi non solo parecchie persone che non vedremo mai, donne e uomini, ma anche animali (gatti, più un cane che sembra «una ranocchietta pelosa») e perfino piante da terrazza (azalee).
Per Diari d’amore Nanni Moretti ha trasferito in teatro l’approccio da regista di cinema: subito dopo la prima lettura delle commedie a tavolino (ne erano previste sei), ha spedito sul palco gli attori facendoli provare in piedi. Sul momento ci sono state proteste, ma ha funzionato. Al Vascello ho assistito alla quindicesima prova complessiva: salvo pochi difetti di memoria sarebbe stato possibile debuttare quella sera stessa. Già pronti e indossati i costumi di Silvia Segoloni, già montati gli elementi cardine della scenografia di Sergio Tramonti: un letto per Dialogo, stretto, lungo e come aggettante da una scena a sua volta pressata entro le dimensioni di un rettangolo proteso alla platea, e un divano per Fragola e panna, in forma di semicerchio ma interrotto lungo il suo arco: «Un unico divano» (commento a voce di Moretti: una rarità) «che le cose della vita hanno spezzato in due».
Durante quella giornata ciascuna commedia è stata provata due volte per intero: fedeltà totale ai testi, velari e fondali assai materici e assertivamente colorati, ridotto all’essenza l’arredo di scena, il rimanente affidato, oltre che alla regia, alle quattro attrici e all’unico attore, e va detto che l’insieme radunato da Moretti è di livello eccezionale. Alessia Giuliani è Flaminia, Arianna Pozzoli (che ha debuttato nel cinema proprio nel Sol dell’avvenire come aiuto regista di Giovanni-Nanni Moretti) è Barbara, ed eccole al centro dei due monconi di divano ai lati opposti del palco. Barbara, diciotto anni e un bambino di un anno e mezzo, fuggita di casa, dal marito, dalla suocera, trasporta una valigia dove ha voluto infilare anche indumenti suoi personali (di Arianna: per sentirla più intimamente propria), e che non si vuole più chiudere. A fine primo atto sarà Flaminia a incaricarsene facendone scattare con facilità le serrature: Flaminia si sbarazza così di Barbara, ma in sua assenza ripeterà più volte, come sotto ipnosi, la sua domanda sbigottita: «E dove vado? Io non so dove andare». Flaminia e Barbara sono due donne che, in maniere diverse, subiscono il narcisismo pacificato di Cesare, interpretato da Valerio Binasco che è il direttore artistico dello Stabile di Torino; è nel suo Carignano che i Diari debutteranno.
Fragola e panna e Dialogo sono, come tutto il teatro della Ginzburg, commedie giocate sui controtempi. La «serva» Tosca (così si definisce quando Barbara la chiama signora: «Non sono una signora. Sono una serva»), interpretata da una magnifica Daria Deflorian, è un personaggio tutto in controtempo, sempre lì a intervenire e sempre sfasato, e sono suoi i due tormentoni che inchiodano lo stato delle cose: «I giovani sbagliano» e «Non mi trovo».
Giuliani e Binasco sono protagonisti anche in Dialogo, dove Marta e Francesco sono personaggi diversi come il giorno e la notte rispetto all’altra commedia. Tra loro, per arrivare a costruirli, non hanno parlato né dei due testi né di Natalia Ginzburg; hanno parlato dei rispettivi fatti personali, ritrovandosi complici. Dialogo è un sunto di tutto ciò che può succedere in anni di vita insieme, ed è straordinario il contrappunto dei saliscendi che Binasco e Giuliani fanno su quel materasso: il mezzo voltarsi, i mezzi sguardi, le mezze parole, la musica gestuale dei due corpi affiancati.
Nanni Moretti nei Diari non recita, fa solo la regia. Nel 2016, centenario della nascita di Natalia Ginzburg, aveva scelto invece di interpretarla, leggendo Caro Michele. Di questa lettura c’è un disco, ma bisogna guardare il video registrato al Salone del Libro: Moretti pronuncia le parole come se fossero oggetti misteriosi. Non le pronuncia come se non sapesse che cosa vogliono dire, ma proprio come se non sapesse che cosa sono le parole, ed è qui, forse, che si svela il senso dell’impresa che tenta ora a teatro. Perché proprio Natalia Ginzburg? Con lei ha un punto in comune: entrambi sono stati accusati di ignorare la grammatica elementare dell’arte che praticano: della parola scritta per la Ginzburg, dell’immagine in movimento per Moretti. Se fosse vero, non si capirebbe perché la traccia che lasciano nel linguaggio italiano sia così profonda. Natalia Ginzburg è tra i pochi scrittori italiani del Novecento ad aver dimostrato non solo che la lingua italiana esiste, ma che esiste una lingua scritta capace di offrire una forma persuasiva di lingua parlata. È una lingua realistica perché di pura invenzione, ed è una lingua che, soprattutto nel ciclo delle sue undici commedie, è inesorabile nell’inchiodare il velleitarismo intellettuale. Possiamo essere certi che Moretti ha ammirato da sempre questo talento nella Ginzburg, dal momento che sempre lo ha posseduto in proprio: prendere in giro gli intellettuali senza ricorrere al loro gergo.
Oggi Moretti porta in scena due testi, e cinque attori, che sommati fanno il numero perfetto di sette complici. Attori che nel leggere la Ginzburg sono spinti a dire (parole di Binasco) che i grandi scrittori di teatro sono sempre maestri di recitazione. Attori che, nel lasciarsi assorbire sempre più dal testo, sentono (Arianna Pozzoli) che le pause da rispettare spuntano dentro di loro come funghi. Attori infine che (come Giorgia Senesi, ed è l’affermazione più bella) dietro le quinte seguono tutta la commedia anche quando non sono in scena, perché sanno che non si deve mai uscire da quel flusso, da quella musica.