Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  settembre 22 Venerdì calendario

Interviste a Sabato De Sarno

Paola Pollo per il Corriere

Sabato De Sarno, oggi è il gran giorno. Il mondo saprà... «Che sono Sabato. Che sono io, ancora». Ed è subito lui. Senza filtri e paletti. Quarant’anni tondi, tondi. Nato a Cicciano, nel Napoletano, cresciuto a Como con sempre e solo un sogno, la moda. È il nuovo direttore creativo di Gucci e oggi presenterà il suo primo show.

Dunque era questo il momento giusto?

«Non so se ci sia un momento giusto per una cosa così. Ero molto felice anche prima, per 14 anni in Valentino mi sono sentito a casa, con Pierpaolo (Piccioli ndr) abbiamo pianto insieme. Io piango spesso. Mi emoziono e non me ne vergogno».

E chi è Sabato?

«Sempre lo stesso. La gente studia le mie scelte pensando a chissà quale strategia ci sia dietro. Macché».

Cominciamo dal nome.

«Da bambino mi prendevano tutti in giro, persino le maestre, ora lo amo e ne sono fiero perché è quello di mio nonno e mio padre adesso è orgoglioso di vederlo scritto sui giornali. E poi mi toglie sempre dall’imbarazzo: in qualsiasi situazione serve a rompere il ghiaccio perché tutti vogliono sapere perché mi chiamo cosi!».

Un giorno la chiamano da Gucci...

«Era un talent scout di Kering. Ero a New York e non c’era nessuna notizia su Alessandro (Michele ndr), che aveva appena sfilato con la collezione indossata dai modelli -gemelli. Sapevano tutto di me e io pensavo mi cercassero per un marchio nuovo. Torno, vado a dormire per il jet lag, e il mattino dopo trovo sia la notizia di Michele che la comunicazione che ero in lista per il suo posto. È cominciata tutta la trafila e non ho più dormito. Di notte sogno tanto e quando mi sveglio mi sembra tutto vero».

Hanno scelto lei: perché?

«Quando ho firmato, ho dormito col contratto sotto il cuscino: ogni tanto allungavo la mano per toccare la carta. E dicevo: è tutto vero, perché non ci credi? Non ho mai pensato di fare il direttore creativo, sono uno da squadra. Arrivo da un paesino e da una famiglia lontanissima dalla moda. Mia madre Maria non è mai entrata in un negozio di lusso e la sua preoccupazione in questi giorni è cosa indossare allo show. Le ho detto di vestirsi come si sente, in sneaker e t-shirt è sempre lei, con i suoi valori, ed è la persona più importante al mondo. Voglio che siano il suo volto e il suo sguardo quelli che vedrò per primi quando uscirò in passerella».

Sarà sempre più difficile essere Sabato, da oggi.

«Vivo di moda: toccare i tessuti è una delle cose più belle al mondo. Ma mi piace anche Sabato e voglio restare quello che sono, libero. Tutti parlano di libertà però alla fine ti dicono cosa devi fare, dove devi andare, chi frequentare. Queste liste non mi piacciono. Voglio restare il ragazzo che da Prada guardava da lontano la signora Miuccia. Grazie al mio lavoro sono entrato in mondi che non conoscevo, come quello dell’arte che ora è la mia passione».

La libertà di dire quello che pensa: lo ha messo bene in chiaro in azienda?

«Non ce n’è stato bisogno. Credevo che in Gucci sarei stato uno degli ingranaggi di una macchina guidata da altri. E invece non è così. In sfilata ci sarà tutto quello che piace a me. Ho incontrato Francesca Bellettini (il super ceo di Kering, ndr) e Jean-François Palus (il ceo di Gucci) e sono state conversazioni bellissime. Ti senti che fai moda e che sei libero».

I primi giorni in Gucci?

«Tre giorni chiuso negli archivi, a Firenze. Dovevo toccare, volevo rivedere la prima Jackie, in assoluto tra le cose più belle della moda. Ho scoperto le stampe, da dove vengono gli animali, gli acquarelli, i disegni. Gucci ha 100 anni, ha fatto tanto ma è stato poco raccontato, non esistono libri a parte il testo uscito nel periodo di Frida Giannini, ma molto prodotto. Ora ho la libertà di toccare quelle cose, usarle, rifarle e utilizzarle secondo la mia estetica. Dall’archivio ho preso più cose, le borse Jackie e Bambù e la campagna che ho fatto con Daria (Werbowy, ndr): i gioielli vengono da una collana d’archivio. Ho trovato un’azienda che vuole vedermi su di un piedistallo, ma io non ci so stare. Non voglio parlare solo al direttore della collezione, ma anche con i ragazzi e le ragazze dell’ufficio. Preferisco cenare con mio marito a casa dei miei amici Davide e Ilaria piuttosto che con Julia Roberts».

E suo marito sarà pronto?

«Stiamo insieme da 11 anni, siamo sposati da 4, investiamo nel rapporto. Vorrei che le mie scelte e le persone che sono intorno a me parlassero del mondo che mi piace. Credo nella famiglia e nella diversità: ho vissuto sulla mia pelle cosa significa non essere accettato. Non devo spiegare quanto sono importanti per me le donne perché fanno parte del mio lavoro, sono le mie amiche, sono con me».

Si è mai imbucato a una sfilata, da ragazzo?

«Mai e non ho neppure mai visto una sfilata da seduto, sempre nel back stage. Le mie prime sfilate però le ho viste in tv: Gianni Versace per me era il simbolo di tutto. Ero piccolo, stavo scoprendo la mia sessualità e vedevo lui che era il designer per eccellenza e con la sua famiglia veniva dal Sud... Quando sono cresciuto ho puntato a Milano, è l’unico posto in cui mi sono sentito me stesso, qui ho costruito la mia vita. È una città a cui devo tanto e adesso voglio ridarle qualcosa».

Paura?

«In generale non è un sentimento che provo. Di certo so che piangerò».



Serena Tibaldi per la Repubblica

Subito dopo aver firmato il contratto come direttore creativo di Gucci, Sabato De Sarno si è tatuato sul braccio la parola “Ancora”.
Il termine, che per lo stilista quarantenne indica la voglia di continuare a innamorarsi della moda, è anche il nome del rosso cupo diventato il colore ufficiale del brand sotto la sua gestione, oggi ufficialmente al via con la sua prima sfilata, alle due del pomeriggio. La collezione, che segna per il marchio l’inizio dell’era post-Alessandro Michele, sarà la più studiata e discussa della stagione. E lui lo sa bene. «Che collezione è? Per me è bellissima», dice ridendo.
Altri indizi?
«In passerella c’è la mia estetica, che non è solo moda. Ci sono elementi di Gucci che tutti conoscono, uniti alle mie idee.
Sono vent’anni che faccio questo mestiere, so che voglio fare quello che mi piace, senza significati reconditi.
La moda dev’essere creatività, e la creatività dev’essere libera».
Partiamo dal principio.
«Sono cresciuto a Cicciano, in Campania.
Io e i miei amici aspettavamo le serate dei weekend per vestirci mostrando finalmente come sentivamo di essere. È allora che ho capito il potere della moda: permette di rappresentare se stessi come ci si vede. Quando i miei genitori si sono trasferiti a Como, sono venuto a Milano a studiare modellismo all’Istituto Secoli; alla sfilata di diploma mi recluta Prada, poi passo a Dolce&Gabbana e, nel 2009, lavoro a Roma con Pierpaolo Piccioli e Maria Grazia Chiuri da Valentino.
Rimango lì per 14 anni, fino a ora».
Anche Gucci ha il suo quartier generale a Roma. Lei però vive a Milano.
«Casa mia è Milano. Mio marito lavora a Bruxelles alla Comunità Europea, e la città è il nostro punto d’incontro. Milano per me rappresenta quello che è stata l’America per tanti Italiani: il sogno.
Qui c’è la moda, e qui ho potuto vivere liberamente le mie passioni e la mia omosessualità, scoprendo il vero Sabato».
Nei giorni scorsi ha presentato a Brera il libro “Milano Ancora”.
«È una raccolta di parole e immagini, dai quadri di Fontana ai fotogrammi dei film di Antonioni, che considero il mio manifesto. Quando ho firmato da Gucci, la gente s’è buttata sul mio account Instagram per capire chi fossi. Ecco, questo volume lo spiega».
Dov’era quando hanno annunciato la sua nomina, sabato 28 gennaio?
«Mi hanno avvisato solo la notte prima che lo avrebbero comunicato, ero stordito. Con mio marito sono stato a Como dai miei, passando la giornata a leggere tutti i messaggi di auguri, ridendo e piangendo di gioia».
I suoi genitori come hanno preso la scelta di fare lo stilista?
«Mia madre mi ha sempre appoggiato incondizionatamente. Non credo fosse mai entrata in una boutique di lusso prima d’ora, ha passato giorni a scegliere cosa mettere alla sfilata. Mio padre invece è più taciturno. Ho scoperto quanto fosse orgoglioso di me chiacchierando con il barista sotto casa loro: sa tutto della mia carriera. Così ho capito quanto parli di me e quanto sia fiero».
La prima cosa fatta arrivato da Gucci?
«Mi sono fiondato in archivio a Firenze, a studiare da vicino i primi modelli di Jackie e Bamboo: per me sono le borse più belle di sempre. Quello che mi interessa in realtà non è tanto il modello, ma come si indossano: come si tiene il braccio, come cambia la postura. È il gesto che mi attrae.
Poi, studiando, ho scoperto un mondo che ignoravo, come delle splendide pochette da sera degli anni Cinquanta: alcuni dei ricami in sfilata li ho presi da lì».
Quando crea pensa ai clienti?
«Se pensassi ai clienti non farei mai nulla di nuovo. Quindi cerco di non farlo».
Il rischio, con un marchio tanto importante, è di cadere nel citazionismo. Come lo evita?
«La questione non è citare: il passato è fondamentale per il presente. Non si può ragionare solo in termini di rottura con quello che è venuto prima. Al massimo sono gli altri che leggono il tuo operato come uno strappo, ma non il contrario: forzare il discorso non è nel mio stile».
Cos’altro non è nel suo stile?
«Il voler essere protagonista a tutti i costi: questo è un lavoro di squadra. Se sono qui è perché le persone con cui ho lavorato mi ci hanno portato. Da solo non vai lontano».
Qual è il compito di un direttore creativo oggi?
«Portare la sua visione. Ecco perché ho subito riarredato il mio ufficio secondo i miei gusti: l’architettura brutalista, i pezzi storici del design italiano, i tocchi di colore... Appena arrivato ho sentito il bisogno di circondarmi di ciò che amo, ed è stato anche il modo migliore per far capire la mia visione a chi lavora con me».
Forse anche per prendere le distanze dall’estetica molto diversa di Alessandro Michele che l’ha preceduta?
«Onestamente no, non ci ho pensato.
Dovevo spiegare in fretta chi fossi al mio team. Non conoscevo nessuno, e loro in due mesi hanno dovuto cambiare registro e adattarsi al mio approccio.
Hanno fatto un lavoro straordinario.
E un’altra cosa».
Dica.
«Qui dentro l’unica novità sono io, tutto il resto c’era già. Dovevo affermare la mia identità. Io voglio rimanere come sono, non voglio trasformarmi nel cliché del “direttore creativo”».
In che senso?
«Che in certe posizioni sei circondato di gente che ti vorrebbe incasellare secondo gli stereotipi del settore. Ma a me Sabato piace così com’è. E poi rispetto molto gli altri, figurarsi se non rispetto me stesso».