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 2023  settembre 22 Venerdì calendario

I bambini, con il giusto linguaggio, sono uno spettacolo

All’inizio di un anno scolastico già travagliato, mio figlio allora tredicenne ha detto, velocemente e in mezzo a mille altre cose tipo io a scuola non ci torno, che voleva fare teatro. L’ha detto allo stesso modo in cui dice, a testa in giù sul divano: voglio fare l’astronauta ma senza studiare matematica, voglio mangiare ottocento gelati in un giorno, voglio tutte le playstation che esistono. Frasi che si perdono, che corrono via, che trattengo giusto il tempo di rispondere che la playstation se la scorda.
Ma quel pomeriggio c’è stato qualcosa di diverso, la frase conteneva una parola nuova: teatro, ed era accompagnata da uno sguardo vivo d’attesa (sempre capovolto, sempre a testa in giù sul divano). Ci siamo informati, ho cercato, chiesto, telefonato, abbiamo trovato un posto, a Roma, che faceva dopo poche settimane una lezione di prova. Nel frattempo dicevamo a nostro figlio però studia, però leggi, però dai, la vita è anche una versione di greco. Lui rispondeva che no, la vita è altrove.
E poi quel pomeriggio, alla lezione di prova a cui io non l’ho accompagnato, mi ha telefonato con una voce tremante dicendomi che era il più piccolo di tutti, che non avrebbe mai avuto il coraggio di entrare, che era meglio se tornava a casa. «Mamma, hanno tutti diciott’anni». Diciott’anni significa: sono adulti, sono astronauti, sono appena arrivati da un altro pianeta con le loro tute spaziali, sono alti quattro metri. Ho insistito debolmente, ho pensato che io alla sua età non ce l’avrei mai fatta, gli ho detto solo: guarda che però non è la scuola. Ha detto: va bene, entro ma poi non lo faccio. Tre ore dopo ci siamo ritrovati in cucina e ho visto un bambino (un bambino di tredici anni, quindi sul confine di qualcosa di dirompente che ancora non sa ma che sente) con gli occhi luccicanti. Ha detto: è bellissimo. È bellissimo, sono simpaticissimi, dicono delle cose tutte diverse, mi fanno ridere, inventano delle parole che prima non esistevano. Ha raccontato: bisognava camminare, bisognava abbracciarsi. Sua sorella ha detto: allora non fa per me.
Ma era chiaro che era successo qualcosa di bello. Lui ha aggiunto: devo trovare il coraggio di andarci anche se sono basso. E in effetti l’ha trovato, ci è andato ogni settimana, anche con il mal di pancia, anche con il diluvio, anche con lo sciopero dei mezzi. Quando arrivava a teatro solo venti minuti prima, gli sembrava di essere in ritardo. Quando era una settimana difficile, quando ci sono state le pagelle del primo quadrimestre ad esempio, beh, quel mercoledì pomeriggio passato a parlare in un altro modo, a diventare qualcun altro, a ridere per i giochi di parole e per i mondi inventati diventava davvero il pianeta della gioia. Una gioia fatta di corpi e di parole.
Lo spettacolo finale, ispirato a Gli uccelli di Aristofane (414 avanti Cristo, continuava a ripetere lui, incredulo), è stato preparato in gran segreto e noi non ne abbiamo saputo niente finché non ci siamo seduti sui gradini del teatro, a luci spente, dopo mesi in cui nostro figlio suonava la sera il flauto con il naso. Non dirò che è stato bellissimo per non essere patetica, ma in realtà è stato qualcosa di più: è stata l’evidenza del bisogno di un linguaggio diverso. Questi ragazzi (alcuni in effetti alti quattro metri, ma almeno nel frattempo mio figlio era cresciuto dieci centimetri) affrontavano, parlando, cantando, ballando, scherzando, questioni serissime ed eterne. E se ne liberavano, mettendole in scena con una freschezza che bisogna riuscire a non perdere, dopo.
Penso a me, penso a noi che viviamo di linguaggio e di parole e che cerchiamo strade perché queste parole si rinnovino ogni giorno invece di impallidire. Quello spettacolo, a parte le foto che cercavo di fare a mio figlio suscitando, poi, la sua riprovazione, è stato molto più di un articolo di giornale apocalittico sul declino del nostro tempo, pieno di preoccupazione per le prossime generazioni, denso di considerazioni astratte in cui compare spesso la parola “social”, usata con ribrezzo, come tenere per la coda un topo morto (un articolo che i nostri figli non leggerebbero mai, tra l’altro): è stato come scoprire una porzione di cielo blu.
A questo serve il linguaggio, no? A scoprire nuove porzioni di esistenza. Con i giornali, con i libri, con l’arte. Ho scoperto che gli scoiattoli godono del pretty privilege, ad esempio in confronto ai topi, perché hanno una bella coda e sono carini allora noi non li uccidiamo ma gli facciamo le foto al parco del Valentino e a Central Park. Non avevo mai pensato agli scoiattoli in questi termini, ma gli adolescenti sì. Ci sono modi di parlare e di scrivere che allontanano, perché si rivolgono a un altro mondo, perché non offrono chiavi di accesso e hanno esaurito la loro forza, e ci sono invece giornate luminose in cui capisci tutto e ti accendi, perché qualcuno ha trovato le parole, ha trovato anche il movimento del corpo e ha aperto un varco. Il teatro è questo. Le parole servono a farci accorgere che esiste qualcos’altro, che il nostro cervello si muove e che quella domanda non ce l’eravamo ancora fatta.
Mio figlio mi riempie di domande su tutto, si accorge che io non sempre so le risposte, le cerca allora nelle canzoni, nelle serie tivù, su tik tok, nella lingua inglese e nel cortometraggio horror che ha appena deciso di girare offrendomi una parte da comparsa che muore accoltellata al primo minuto. Ho accettato con entusiasmo. —