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 2023  settembre 22 Venerdì calendario

Intervista a Werner Herzog

Werner Herzog è sempre stato un enigma. E così la sua vita: un rocambolesco intreccio di avventure sempre più pericolose, che hanno prodotto alcune tra le opere letterarie e cinematografiche più importanti dell’ultimo secolo. A muovere Herzog, per sua stessa ammissione, sono sempre state la fortuna e la curiosità. La prima gli è servita per uscire indenne dai pericoli, spesso mortali, nei quali lo ha condotto la seconda.
Di questa vita incredibile racconta, per la prima volta, in Ognun per sé e dio contro tutti (Feltrinelli, tradotto da Nicoletta Giacon): una specie di esplorazione introspettiva di un’esistenza che sfida e vince ogni limite umano.
Herzog è in grado di trovare nel mondo, dalle profondità degli abissi della terra, alla termosfera, al metaverso, la meraviglia e l’assoluto orrore, di combinarli assieme e di trarne una lezione di esistenza. Per sé e per tutti.
Come è stato guardare indietro e scrivere le proprie memorie?
«Ho sempre esitato. Poi, quando ho finito di scrivere Il crepuscolo del mondo, mia moglie, vedendo che non facevo niente e passavo il tempo a guardare fuori dalla finestra, mi ha suggerito: “Perché non scrivi ancora? Dovresti scrivere le un memoir prima che venga un cretino qualunque a scriverlo per te"».
E così, l’ha convinta…
«Sì. Ovviamente non posso impedire a nessun cretino di scrivere di me».
È stato difficile?
«Non proprio. Ho portato la mia vita con me per ottantuno anni, è stato piuttosto semplice metterla in parole. Tutto quello che scrivo è parte di me, e posso tradurlo sulla pagina con facilità a distanza di molti anni. È come se avessi decine di libri già completi e rivisti. Scriverli è l’ultimo tassello di un processo già ampiamente in corso. Ed è indolore».
È una liberazione?
«A volte. A volte è solo un modo per concludere qualcosa di inconcluso».
E lei non lascia mai niente di inconcluso…
«Lo sapremo quando non avrò più modo di concludere niente».
Lei scrive “In qualche modo, sono il prodotto dei miei errori”, resta indolore anche quando deve tornare ai passi falsi che ha fatto?
«Non è una contraddizione. Guardo i miei errori da questa distanza e li posso osservare nei dettagli, nei particolari, e capirli, comprenderli in senso più profondo. Posso trarre dal ricordo dei miei errori un certo sollievo, posso perfino riderci sopra. Non è davvero una contraddizione, casomai il significato profondo di quello che faccio, che non è altro che osservare e scavare, sono un ricercatore».
Sembra che i momenti decisivi della sua esistenza siano sempre stati caratterizzati da atti di violenza…
«Non me la sono andata a cercare, né ne ho mai fatta di proposito. Sono sempre incappato nella violenza, come se fosse lei a cercare me, a seguirmi ovunque andassi. Sono stato imprigionato in Africa centrale, e credo che noi europei non possediamo nemmeno il vocabolario necessario per descrivere un’esperienza tanto terribile».
Le hanno sparato.
«Più di una volta. La volta che mi hanno colpito è stato durante un’intervista per la BBC, mentre avevo una telecamera puntata addosso. Non tutti ci credono quando lo racconto».
Cose ne ha fatto di tutta questa violenza?
«Attivamente, nulla. È parte della mia esistenza; è intorno a me, così come è intorno a me l’assoluto splendore del mondo. Pochi giorni dopo la mia nascita, Monaco è stata rasa al suolo da un bombardamento e mia madre mi ha estratto miracolosamente illeso da un cumulo di macerie e calcinacci che aveva travolto la culla dove dormivo».
Mi sembra un buon segno, se si crede al destino…
«Anche a me. Però mia madre non poteva sopportare di esporci così tanto al pericolo mortale, quindi ci portò in montagna. Avevamo fame e non avevamo niente, ma in qualche modo è stata un’infanzia spensierata. E pensandoci ora, mi sembra che da tutte le difficoltà che ci siamo trovati ad attraversare, sia sempre uscito qualcosa di creativo».
Si sente fortunato?
«Ogni evento della mia vita si è trasformato in qualcosa di produttivo. Niente è andato sprecato. Non sono molti coloro che possono affermarlo. Devo dire che forse sarei stato produttivo anche se non mi avessero sparato».
La sua infanzia ha qualcosa a che vedere con la sua fascinazione per la tecnologia?
«Non avevamo niente. Niente di niente. Non avevamo l’acqua corrente, non avevamo l’elettricità, non avevamo da mangiare. Penso che questo mi abbia benedetto con due caratteristiche fondamentali: la rabbia e la meraviglia. La rabbia mi è servita per proseguire, per non cedere nemmeno quando tutto sembrava andare storto. La meraviglia per non dare mai niente per scontato, per cogliere in tutto ciò che incontro il lato che valga la pena di raccontare. La tecnologia è affascinante quanto la visione dei diecimila mulini a vento di Creta. Può lasciare senza fiato».
La curiosità è un terzo elemento?
«Indubbiamente. Uno dei primi ricordi che ho è quello di mia madre che avvolge me e mio fratello in pesanti coperte e ci porta a vedere il terribile spettacolo della città di Rosenheim che andava a fuoco. Il cielo era illuminato di rosso intenso e pulsava lentamente. In quel momento mi sono reso conto del fatto che, fuori dalle nostre montagne, esisteva un mondo diverso da quello che conoscevamo. Pericoloso, violento, sconosciuto. E quindi ho cominciato a chiedermi di cosa si trattasse, cosa muovesse questo mondo tanto distante ma così vicino».
È diventato un esploratore?
«Qualcosa del genere. Sono diventato un curioso, uno che sente sempre la necessità di vedere, di spingersi un po’ al di là dell’orizzonte».
È rimasto ancora qualcosa da esplorare?
«Ci sarà sempre qualcosa da esplorare, purché la tecnologia continui a progredire».
È necessario?
«Viviamo una pulsione irresistibile per l’esplorazione. Quello che non dovremmo dare per scontato è che ovunque andiamo, come esseri umani, siamo titolati a fermarci. Ho esplorato la giungla amazzonica molte volte e ho capito che il pericolo inizia quando ci si prova a fermare, non quando la si attraversa».
Sembra un consiglio perfetto per Elon Musk…
«Potrebbe esserlo».
Parlando del futuro, lei ha provato a immaginarlo, è arrivato a una conclusione?
«Una volta, con Ryszard Kapu?ci?ski, abbiamo cominciato a scrivere un film ambientato in un futuro nel quale tutte le innovazioni tecnologiche si erano arenate, portando con sé lo sviluppo culturale e intellettuale delle società umane, e facendo regredire l’umanità a uno stato primordiale, in un una Terra desolata e povera, dominata dal dolore e da un’aria irrespirabile».
La caduta dell’umanità…
«Più che altro il crollo di un impero. Dopo la fine dell’Impero Romano, della loro innovazione, dei loro progressi, non è rimasto nulla. Ed è così ogni volta che una società avanzata arriva al punto di tracollo, difficilmente si mantiene ciò che è stato costruito. Il compito delle civiltà successive è quello di scavare e riscoprire. Di arrivare a conclusioni che altri prima di loro avevano già raggiunto, ma che erano state dimenticate».
È preoccupato?
«Raccogliamo ciò che abbiamo seminato. Quale che sia il futuro, dobbiamo prepararci ad avere a che fare con il mondo che noi stessi abbiamo creato. E dobbiamo cercare di fare la cosa giusta finché possiamo, finché ne abbiamo le forze. Se pensiamo di stare facendo qualcosa di giusto per noi e per l’umanità, allora possiamo dirci soddisfatti, quale che sia l’esito generale».
Mi ricorda il pensiero di Albert Einstein sulla Quarta Guerra Mondiale…
«Che verrà combattuta con pietre e bastoni perché la terza avrà distrutto tutto. È un po’ come la pulsione umana all’esplorazione: finché ci si limita a osservare ed è la fascinazione per l’ignoto a condurre le azioni, va tutto bene».
Vede dei segnali di minaccia nell’accelerazione tecnologica che stiamo vivendo?
«Mi sono interessato di intelligenza artificiale, di ricerca cerebrale, di Internet, di robotica, di matematica, e ovunque io abbia guardato ho trovato pura pazzia e puro genio. La combinazione tra queste due cose può portare al trionfo dell’uomo o alla sua disfatta. Non sono preoccupato, perché ovunque si arrivi sarà un traguardo che qualcuno, un pazzo o un genio, avrà messo in conto e con il quale si dovrà avere a che fare».
E se non saremo in grado di gestirlo?
«Se i robot prenderanno il sopravvento, vuol dire? Non succederà. L’intelligenza artificiale è limitata dalla sua utilità, ci sarà sempre qualcuno in grado di arrestare il sistema, perché è un sistema umano, incapace di vera autonomia. Il problema, piuttosto, emergerebbe se chi ha il controllo decidesse di abusarne. Non c’è il rischio di perderlo, ma c’è quello di smettere di comprenderne i limiti».
Spero che lei abbia ragione.
«Lo spero anche io, da tutta la vita». —