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 2023  settembre 22 Venerdì calendario

Feltri prende la metro e finisce in un kolossal di fantascienza

Da qualche tempo mio figlio e io alla mattina prendiamo la metropolitana alla stessa fermata. Lui va in una direzione e io nell’altra, così ci salutiamo per strada e poi ci piace salutarci di nuovo, lui da una banchina, io da quella di fronte. In genere dopo quaranta secondi, cinquanta al massimo, il suo treno arriva e di colpo non lo vedo più. Poi cerco di scorgerlo salire sul vagone per un ultimo cenno di arrivederci, e spesso ci riesco perché il suo treno ha due proprietà: arriva dopo quaranta secondi, cinquanta al massimo, ed è semivuoto. Poi il treno parte e io resto lì, sulla mia banchina. In una mattina normale, il tabellone luminoso indica in sei minuti l’attesa del primo treno e in otto l’attesa del secondo. Se va bene i minuti sono cinque e sette, ma mi è capitato otto e dodici. Soltanto la teoria di Murphy può spiegare perché il treno di mio figlio arrivi in quaranta secondi, cinquanta al massimo e il mio dopo sei minuti, ma nessuna teoria è in grado di penetrare le oscurità profonde delle ragioni per cui si debbano aspettare prima sei minuti e poi due e non quattro e quattro. Ma noi romani, di nascita e d’adozione, abbiamo smesso di porci determinate domande dai tempi di Caligola. Quindi mi appoggio a un muro, estraggo il telefono e leggo una rassegna stampa. Sono le 7.31. Mi assorbo nella lettura finché non vengo ridestato dall’altoparlante: «Treno per Laurentina in arrivo fra sei minuti!». Sei minuti? Guardo l’orologio e sono le 7.33.
Guardo il tabellone luminoso che indica in sei minuti l’attesa del primo treno, e non più in otto ma in nove l’attesa del secondo.
In due minuti – dalle 7.31 alle 7.33 – il primo treno è dunque rimasto fermo e il secondo ha fatto un minuto di retro. Ricomincio a leggere e poco dopo di nuovo l’altoparlante. «Treno per Laurentina in arrivo fra quattro minuti!». Il secondo treno ha rimontato come Vincenzo Nibali in discesa dal Poggio: è a cinque minuti. Adesso l’orologio segna le 7.36. Dalle 7.31 alle 7.36, cinque minuti nei quali per il primo treno ne sono trascorsi due e per il secondo tre, nell’altra direzione ne sono già passati un altro paio. E io non posso non immergermi in vaste speculazioni filosofiche: dove vanno a finire i treni diretti di là, se poi non vengono di qua? In fondo il funzionamento della metropolitana è semplice: un treno parte da un capolinea, arriva all’altro capolinea, e poi riparte verso il primo capolinea, e avanti così, in un moto determinato ed eterno come quello dei pianeti. Quindi se un treno – diciamo nel mio caso – va verso Rebibbia, un altro deve andare verso Laurentina. Non proprio contemporaneamente. Però più o meno. E invece siamo già tre a zero. Dove si sono cacciati i tre treni di cui noi, dalla parte sbagliata della stazione, siamo creditori?
Le mie escursioni lungo le crode del meditare vengono bruscamente interrotte dall’altoparlante alla riscossa: «Treno per Laurentina in arrivo fra due minuti!». Io metto il punto esclamativo perché la voce dell’altoparlante è imperiosa, ha un che di trionfale. Il treno arriva fra due minuti! Mica pizza e fichi. Roba forte. È la modernità in cammino. Solo che adesso sono le 7.40. Quindi in cammino mica tanto. Diciamo che se la prende comoda. Sono passati nove minuti, ma per lui, per il treno, ne sono passati solo quattro. Ed è in quel preciso istante che ho l’illuminazione: la teoria della relatività! Grazie ad Albert Einstein abbiamo scoperto che il tempo è un concetto relativo. In riva al mare il tempo è più lento che in cima all’Everest. Quindi se fossi in cima all’Everest la metro sarebbe già arrivata. O forse no: la differenza è infinitesimale. Ma abbiamo scoperto che il tempo scorre in modo diverso in base alla velocità e alla forza di gravità. Avrete visto Interstellar, il film di Christopher Nolan con Matthew McConaughey. Matthew parte per una missione spaziale perché deve salvare l’umanità ma siccome finisce vicino a un buco nero, dove la gravità è fortissima, mentre per lui è passato un anno, sulla Terra ne sono passati venti o trenta, ora non ricordo. Ma il concetto è quello. Forse sta succedendo anche a noi.
Mi guardo attorno. Sono tutti tranquilli. La gente sulla banchina aumenta ma non dice nulla, nemmeno sbuffa. Camminare, si dice, è lasciare il passato dietro di sé e andare alla scoperta dell’avvenire. Ma noi siamo in un tempo sospeso, mentre fuori è già il futuro. Incredibile! Altro che Murphy, sono Einstein e i suoi epigoni a spiegare la metropolitana di Roma, e infatti riesco a risolvere il mistero dei treni diretti di là e che non tornano di qua: la teoria delle stringhe. Cioè la teoria secondo la quale esistono altre dimensioni, soltanto noi non siamo capaci di coglierle. Vi spiego. Le dimensioni sono tre: altezza, lunghezza, profondità. Più la quarta dimensione: lo spaziotempo, fuori dalla portata dei nostri sensi. Secondo la teoria delle stringhe, si ipotizzano molte altre dimensioni di cui non ci rendiamo conto per i nostri limiti sensoriali. Ma esistono. Vi sottopongo un esempio che mi ha fatto una volta l’astrofisica Ersilia Vaudo: immaginate un tavolo di cui cogliamo soltanto lunghezza e profondità ma non l’altezza. Ci sono due biglie. La prima colpisce la seconda che cade dal tavolo ma, siccome non percepiamo l’altezza, puff! La biglia è scomparsa nel nulla. Eppure la biglia c’è. Quindi anche i treni! Non li vediamo ma ci sono! Però in un’altra dimensione. E Roma, amici miei, lo è.
Riecco l’altoparlante, ormai in stato confusionale. «Treno per Laurentina in arrivo, allontanarsi dalla linea gialla!... Treno per Laurentina in arrivo fra due minuti!... Treno per Laurentina in arrivo fra tre minuti!». Sono le 7.42. Infine il treno arriva alle 7.43: lo abbiamo aspettato dodici minuti. Ed è strano perché, secondo la teoria della relatività, quando un corpo si avvicina alla velocità della luce la sua massa aumenta. E invece nel nostro caso è diminuita. Infatti dai vagoni cominciano a sgusciare i viaggiatori, proprio sparati fuori, a decine, a centinaia, schizzano migliaia di persone che come noi avevano aspettato dodici minuti ma, quando hanno finito di scendere, il treno è ancora traboccante. Zeppo, intasato. Non riesco a entrarci. Va bene, diamo per scontato che nella metro di Roma non si viaggia alla velocità della luce. Ma perché la massa dei corpi dei viaggiatori era diminuita? Perché sui vagoni ci stava il doppio delle persone che ora comunque la riempiono? Mi sta venendo il mal di testa. Anche la storia del buco nero, ci ho ripensato, non sta in piedi. Se la metro di Roma fosse un buco nero, il treno annunciato in sei minuti sarebbe dovuto arrivare in due. Così funzionava in Interstellar. Invece in Metrostellar è arrivato in dodici.
E se fosse un buco bianco? Inebriante! L’esistenza del buco nero è stata dimostrata, quella del buco bianco, il suo opposto, no. Forse siamo in buco bianco: sopra, in superficie, il tempo procede come sempre e qui sotto è accelerato. Un buco bianco: un luogo ipotetico dello spaziotempo. Esiste una definizione migliore per la metropolitana di Roma? Un luogo ipotetico dello spaziotempo. E in quel luogo ipotetico cominciano ad arrivare treni con cadenza leggermente più umana, io riesco infine a salire sul quarto, allo scoccare del venticinquesimo minuto, alle 7.56, sempre pienissimo, ma soltanto perché, grazie a un esperimento di interferometria quantistica, mi faccio antimateria. E finalmente, lungo la via Lattea, sfreccio verso il lavoro come il capitano Kirk sull’Enterprise.