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 2023  settembre 21 Giovedì calendario

CATTIVISSIMO VATTIMO! – ALDO CAZZULLO RICORDA TUTTE LE SPIGOLATURE DEL FILOSOFO DEL PENSIERO DEBOLE: “ERA UNO DEGLI UOMINI PIÙ INTELLIGENTI CHE ABBIA MAI CONOSCIUTO (‘DICIAMOLO: SONO PIÙ INTELLIGENTE DI UMBERTO ECO’ SORRIDEVA). POLITICAMENTE SCORRETTISSIMO, ERA CAPACE DI IRONIZZARE SU TUTTO: ‘QUESTA STORIA DEI PRETI PEDOFILI NON LA CAPISCO. HO SEMPRE AVUTO A CHE FARE CON I PRETI. NON UNO, DICO UNO!, CHE ABBIA ALLUNGATO LE MANI. NESSUNO MI VOLEVA’ – POTEVA DIVENTARE CATTIVISSIMO. DI MERCEDES BRESSO, DISSE: ‘IL SUO PROFILO INTELLETTUALE È QUELLO DI UNA DISCRETA INSEGNANTE DELLE MEDIE INFERIORI’. DI ASOR ROSA: ‘UN VECCHIO BARBAGIANNI’” – E POI I DUE FIDANZATI MORTI TRAGICAMENTE, IL CUBISTA DI TORINO E IL “BONAZZO” DI NEW YORK  -

Gianni Vattimo era uno degli uomini più intelligenti che abbia mai conosciuto («diciamolo: sono più intelligente di Umberto Eco» sorrideva). Questo non gli impediva di dire a volte sciocchezze, ad esempio su Israele. Ma il modo in cui racchiudeva sistemi filosofici in poche parole comprensibili a tutti era straordinario. E straordinaria era la sua storia.

Politicamente scorrettissimo, era capace di ironizzare su tutto, a cominciare dall’ambiente religioso in cui era cresciuto: «Io questa storia dei preti pedofili non la capisco — raccontava —. Sono cresciuto nell’Azione Cattolica. Ho fatto la campagna elettorale del 1953 per la Dc, accompagnavo le vecchiette ai seggi. Con Umberto Eco da ragazzi cantavamo, in onore di Pio XII: “Bianco Padre che da Roma/ ci sei luce, meta e guida/ su ciascun di noi confida…”. Ho sempre avuto a che fare con i preti. Ebbene: non uno, dico uno!, che abbia allungato le mani. Nessuno mi voleva. Un’indecenza!».

Che fosse più intelligente ancora di Eco — e non era facile — lo pensava il maestro di entrambi, Luigi Pareyson, ferreo cattolico che nonostante la dolorosa scoperta dell’omosessualità dell’allievo prediletto volle lasciargli la cattedra di estetica a Torino, esiliando Eco a Milano.

«In realtà Pareyson adorava Eco — diceva Vattimo —, ma lo considerava inaffidabile. Ad esempio non sopportava che per Natale non gli mandasse neanche un biglietto. E io lo difendevo: non è per trascuratezza, è che Eco ritiene banale scrivere cose tipo: porgo i migliori auguri…».

Figlio di un poliziotto calabrese e di una casalinga di Torino, Gianni Vattimo era la prova che nell’Italia del dopoguerra il talento e lo studio potevano portare dappertutto. Nel novembre 1961 tenne la sua prima conferenza — in via Po, dove poi prese casa — sul tema non agevole «il Nietzsche di Heidegger», avendo in prima fila («Eco era in quarta o quinta») Bobbio, Viano, Rossi, Abbagnano, Geymonat, Chiodi, Guzzo, Mazzantini, Michele Pellegrino futuro arcivescovo e Pareyson, insomma la Filosofia.

Buono d’animo, poteva diventare cattivissimo. Quando era in competizione con Marco Rizzo alle Europee del 1999, l’anno della guerra in Kosovo appoggiata dai Comunisti italiani, fece scrivere da un allievo sotto i portici di via Po «Rizzo pelato/servo della Nato».

Di Mercedes Bresso, presidente della Regione Piemonte, disse: «Il suo profilo intellettuale è quello di una buona casalinga e di una discreta insegnante delle medie inferiori». Di Asor Rosa: «Un vecchio barbagianni». Un’altra volta proclamò: «Sto pensando di fingermi etero, circondarmi di donne». Perché mai professore? «Perché mi vergogno di essere omosessuale come Cecchi Paone».

Vattimo cercarono di cambiarlo in tutti i modi. «Mi mandarono dallo psichiatra, poi dalla psicanalista, che venne ad aprirmi la porta con un dobermann al guinzaglio. Poi mi presentarono una bellissima ragazza, di una famiglia tra le più ricche di Torino. Le volevo bene, pensavo che una donna altoborghese avrebbe potuto sposare un gay. Ma il padre prese informazioni su di me in questura. E la costrinse a lasciarmi».

L’outing glielo fece nel 1976 il padre del movimento gay italiano, Angelo Pezzana: «Scoprii dalla Stampa di essere candidato radicale in quota Fuori, Fronte unitario omosessuali rivoluzionari. Mia sorella nascose il giornale a mia madre». Pareyson sapeva già tutto, «gli avevo presentato Giampiero, il mio compagno. Morto di Aids. Poi è venuto Sergio. Ucciso dal cancro. Andammo per l’ultima volta in America, al ritorno dovevamo raggiungere l’Olanda per l’eutanasia: morì sul volo. Ho avuto una vita sentimentale tragica».

Però il matrimonio omosessuale non lo interessava molto: «Le nostre unioni durano perché non sono unite da legami codificati. Se potessimo sposarci, non per questo saremmo più felici. Che gusto c’è altrimenti a essere liberi, trasgressivi, insomma gay? Un conto sono le garanzie legali sull’assistenza o sulla casa: già Aristotele nel testamento divise il patrimonio tra la moglie, i figli e il suo amante. Ma se uno si lega troppo finisce per reclamare un’istituzione sacramentale; e forse è un errore. Andavo a New York in cerca di avventure, trovai un nero, un bonazzo, che però ogni sabato sera mi piombava in casa, voleva cucinare per me, piangermi sulla spalla: si lamentava del razzismo dei bianchi, delle lavanderie a gettone…sono tornato a Torino».

A Torino aveva un fidanzato cubista di 27 anni. Poi nella sua vita entrò Simone Caminada, cui voleva lasciare tutto, nonostante la magistratura. Non bisogna però pensare Vattimo come uno spensierato gaudente, anzi, sosteneva che con i giovani occorresse una certa dose di repressione: «Noi siamo diventati serenamente vecchie maiale perché al nostro tempo fummo repressi da esami di coscienza, confessioni, penitenze…».

Il successo di pubblicò arrivò nel 1985, quando Roberto D’Agostino lanciò a Quelli della Notte «il pensiero debole di Gianni Vattimo», che era poi la fine delle ideologie, la vittoria del relativismo, e la riscoperta di Protagora: l’uomo è misura di tutte le cose; e un cibo che a qualcuno pare dolce ad altri può risultare amarissimo.

Talvolta l’intelligenza prodigiosa di Vattimo andava protetta da se stessa; come se fosse minata da un tratto indolente, lieve, incostante, che peraltro lo rendeva ancora più simpatico. Nelle conversazioni poteva passare da Fichte a Bonolis, da Talete a Chiamparino («uno stalinista»).

[…]

Sosteneva di essere rimasto cattolico, anche se si era gettato a sinistra: «Mi arrestarono ai cancelli di Mirafiori mentre leggevo il Vangelo al megafono: beati gli ultimi perché saranno i primi…». Una sterzata ulteriore venne con il ’68: «Entrai in ospedale per un’ulcera. Passai tre mesi a leggere Marcuse. Ne uscii maoista. Per Pareyson fu un altro colpo durissimo. Eppure continuò a volere me al suo fianco, non Eco».

Frequentava casa Agnelli e le case Gescal della periferia, dove portava Fausto Amodei e le canzoni dei Cantacronache, testi di Calvino, Straniero, Liberovici, Fortini ed Eco («il più bruttarello: tuppe tuppe colonnello/ compreremo un campicello/ entro un anno sarà pronto/ un bellissimo aeroporto. Mah»). Si vantava di essere citato nei dizionari filosofici francesi prima di Voltaire. Con gli elettori parlava dialetto piemontese e calabrese e distribuiva santini con una citazione di Keynes: «La Repubblica dei miei sogni si colloca all’estrema sinistra della volta celeste».