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 2023  settembre 21 Giovedì calendario

I segreti di Emilio Vedova

«Magari facessi in pittura, ciò che riesco con l’incisione», rimuginava Emilio Vedova (1919 -2006) facendo scivolare le sue acqueforti tra le mani. Le controllava una dopo l’altra, ancora avvolte dagli odori acri degli inchiostri. Passavano al vaglio lenticolare di uno sguardo affilato e di una mente intransigente. Il cipiglio, incorniciato da una barba da sapiente e allo stesso tempo da rivoltoso, era severo, perfino arcigno. La sua dedizione all’arte era impegno assoluto, nella pittura come nella grafica. A condurci in questa porzione della sua opera è una mostra appena svelata dalla Fondazione Emilio e Annabianca Vedova, scandita tra il Magazzino del Sale e lo Spazio Vedova alle Zattere. Finora questo suo giardino segreto, arato, scavato e poi corroso nei metalli per germogliare su carta, era rimasto sotto traccia rispetto alla pittura, mai oggetto di un affondo.
«La grafica è stata però centrale nel suo immaginario. Una porzione immensa e ancora inedita della sua opera», svela il presidente della fondazione Alfredo Bianchini. «Mai figlia di un dio minore, né frutto di un lavoro liquidato con la mano sinistra, ma una delle sue più appassionate ricerche». La mostraEmilio Vedova. Tempo Inciso (fino al 26 novembre), attraversa così tutte le fasi della sua intera produzione grafica seguendo una traiettoria di mezzo secolo, da metà anni Cinquanta. Ne scandaglia le profondità, dall’incisione alla serigrafia, dalla litografia al collage, alle vetrografie.
Sono moltissimi i lavori inediti di un artista combattente dalla passione precoce e travolgente per il disegno e per la pittura, operaio-bambino prima, partigiano poi, e ancora sulle barricate dal Sessantotto. E tutti quei lavori sono stati distillati dalla sapiente curatela di Fabrizio Gazzarri, artista mancato improvvisamente a inizio luglio, per decenni spalla a spalla con Emilio Vedova in studio (già Direttore Archivio e Collezione della Fondazione). La sua è stata un’ampia e significativa selezione, dalle litografie degli anni Sessanta alle ultime incisioni eserigrafie dei Duemila, accompagnate da opere a tre dimensioni, le “litoplurime” e “seriplurime”, degli anni Settanta. Affiora così la grafica nella sua ricchezza, nella varietà e nel dinamismo, come qualità restituite anche da un allestimento dalle ritmiche inattese.
Così si riattiva anche la macchina espositiva robotica concepita da Renzo Piano per la fondazione nel 2009, al Magazzino del Sale, nata per amplificare quella attitudine del segno a espandersi oltre i margini dell’opera e a proiettare le sue direttrici nello spazio, come una coreografia sprigionata dal suo corpo. «È questa l’estensione di una visione del mondo in cui la bellezza è energia». E questo emerge nella grafica, che richiede un’azione fisica potente, persolcare, imprimere, forgiare la matrice. «In questa azione si racchiude il suo modo di sentire il mondo, di partecipare alla vita e di manifestarla. Queste opere sprigionano la sua forza fisica, tra inchiostri e acidi su lastre zinco, miscele che mai ha svelato o condiviso».
La primissima fase di questo prometeo dell’incisione, che in mostra ci appare anche attraverso vecchi filmati (montati da Tomaso Pessina di Twin Studio), è il decennio da metà anni Cinquanta, una fase di crescita e di successi, tra convegni, mostre, musei, gallerie. Il crinale è il 1964, quando Robert Rauschenberg vince il Leone d’oro alla Biennale di Venezia travolgendo l’arte europea con il nuovo idioma della pop art americana. Allora la grafica assume per lui un ruolo decisivo. Rappresenta una porzione sempre più intensa e significativa, sullo stesso piano della pittura. Perché? «Doveva scegliere se optare per una contro pittura di dissenso, anche verso la pop art, oppure immettere una nuova tattilità nell’opera».
E la grafica, rifugio in queglianni di un’utopia di democratizzazione dell’arte, divenne così il luogo di evasione e di compensazione mai più abbandonato. Ma quali segreti racchiudeva quel suo laboratorio alchemico, tra serigrafie, sovrapposizioni fotografiche su tela, acquetinte?
«I neri ricorrenti, non dovevano mai essere piatti, opachi, sordi», svela Corrado Albicocco, il suo stampatore dal 1979, testimone unico di una parte di quei processi segreti. I suoi neri dovevano essere vellutati e fitti di riflessi, un concerto di notti lunari modulate e profonde. «Non sopportava i bianchi gessosi, quando s’imprimevano fissi». Le lastre le preparava in studio. Le trattava sui due versi. Le nutriva del medesimo tormento della pittura. «Ed era completamente autonomo in questa fase, svolta nel suo studio, lontano da occhi indiscreti», continua. «Questo lo rendeva unico. Non ho mai conosciuto un artista che sapesse fare il medesimo lavoro. Mi consegnava le lastre già trattate e disegnate per la prova di stampa. Erano acidate con pozioni pure potentissime, che di solito si usano invece diluite. Erano perfino mangiate dagli acidi, scorticate. Erano poi attraversate da inchiostri, ma anche da grassi e da saponi o da vernici bituminose, un lavoro gestuale che si sommava all’irruenza di ciò che aveva tra le mani. Poteva essere il manico di un pennello o uno straccio intriso di colore. Ma il grasso si muoveva sulla lastra e ciascuna di quelle immagini diventava così unica su carta».
Acidi e metalli, pietra e inchiostri, collage di pellicole e montaggi di foto, come ritagli di giornale, fitti di messaggi politici e libertari, Vedova conosceva così profondamente i segreti della grafica da farla germogliare come materia viva nel suo giardino alchemico.