Avvenire, 20 settembre 2023
Intervista a Micaela Ramazzotti
Non poteva essere più bello l’esordio alla regia di Micaela Ramazzotti, 45 anni, una delle attrici più amate del cinema italiano. Non solo perché il suo Felicità è il vincitore del Premio degli spettatori – Armani Beauty alla Mostra del cinema di Venezia 2023 nella sezione Orizzonti Extra. Il film, una produzione Lotus con Rai Cinema, in sala oggi giovedì 21 settembre distribuito da 01, vede Ramazzotti protagonista di un dramma familiare con Max Tortora, Anna Galiena, Sergio Rubini e Matteo Olivetti che ha colpito nel segno parlando di disagio psichico, di periferie e famiglie disfunzionali. Dove Desirée, da lei interpretata, parrucchiera da set cinematografico, cresciuta in periferia e succube de fidanzato professore, è l’unica che può salvare il fratello oppresso psicologicamente da due genitori egoisti e manipolatori.
Un film toccante, appassionante e sincero, che una emozionatissima Ramazzotti aveva dedicato, sollevando il Leone nero sul palco del Palazzo del Cinema, «a chi sta vivendo un momento difficile, delicato, di infelicità nella vita. L’infelicità può durare a lungo, ma bisogna lottare sempre per la felicità, cosa di cui tutti noi abbiamo bisogno». A lei, che ci ha abituato a grandi ruoli di donne complesse, divertenti e coraggiose da La prima cosa bella a La pazza gioia di Paolo Virzì, senza contare la dolente madre “in affitto” di Una famiglia di Sebastiano Riso, chiediamo come mai ha scelto di dirigere e scrivere, con Isabella Cecchi e Alessandra Guidi, un film dalle tematiche così impegnative.
Micaela Ramazzotti cosa l’ha spinta a scrivere, dirigere e recitare un film doloroso ma anche positivo come Felicità ?
Oltre ad esserne regista e autrice ho avuto anche la faccia tosta di interpretarlo. Volevo metterci la faccia in questo progetto perché sentivo l’esigenza di voler raccontare le famiglie con problematiche, i genitori egoisti, genitori bambini eccessivi e manipolatori. Mi piaceva seguire la storia di Desirée nata in una famiglia problematica, come un mostro a due teste interpretato da Anna Galiena e Max Tortora. Si parla di due figli ingenui, cresciuti nella malattia fin da piccoli, malattia nutrita da una mamma che bullizza il figlio cui è legata morbosamente, e da un padre a cui interessa sfruttare la figlia per la sua carriera di showman. Sono genitori che non apprezzano i figli. Ma i due figli, nonostante siano nati da una famiglia così malata, non si sono intossicati. Sono solo indeboliti, perché se un genitore ti ripete che sei un buono a nulla, alla fine il figlio rischia di crederci.
Un film dalla parte dei giovani?
In questo film l’argomento è l’abuso sui figli, sono i ragazzi cresciuti dove c’è trascuratezza, dove i genitori sono presi da loro stessi. Ma tutti i personaggi del film sono angosciati dal vivere, Anche il rapporto tra l’insicura Desirée e il fidanzato saccente (Sergio Rubini) lascia intravedere il tema della violenza psicologica sulle donne.
Quello tra Desirée e Bruno è un rapporto malato, con lui che si mette sul podio a dare lezioni di vita giudicandola in continuazione. È facile accusare noi donne: se sei bizzarra ti danno della matta, se tradisci ti danno della poco di buono. Su di noi il pregiudizio è talmente alto. Volevo raccontare una cosa che le donne subiscono spesso. È un bullismo continuo. Io non sto né dalla parte dei genitori, i Mazzoni, e neanche del fidanzato. Tutti la trattano da scema, tutti ne approfittano succhiandone la purezza, perché non è cattiva. E intanto nessuno, tranne lei, si accorge dei problemi del figlio depresso.
Lei ambienta il film tra i palazzi popolari di Fiumicino, simili a quelli dove è cresciuta.
Io sono cresciuta vicino a Ostia, in luoghi simili a Fiumicino. Mi piaceva partire da cose che conosco, dai palazzoni dove famiglie di 4 o 5 persone sono strette in appartamenti piccoli dove la malattia prolifera, perché non c’è la privacy.
Nel film compaiono ospedali, medici e cliniche specializzate. Ha avuto la consulenza di esperti?
Mi hanno aperto le porte psicoterapeuti, ospedali e cliniche psichiatriche. Oltre a visitare le strutture, sono stata a molti meeting e incontri fra famiglie. Nella clinica che si vede nel film ho incontrato 50 pazienti accompagnati da 50 genitori: il problema era il rapporto genitori-figli. Mi ha colpito che non ci fossero solo adolescenti, ma anche alcuni figli di 60 anni con di mamme 80 anni. Quando ho scritto Felicità i due protagonisti li avevo pensati sui 12/ 14 anni. In realtà i due protagonisti possono avere 30, 40 o 50 anni: in quella situazione di dipendenza da qualcuno ti puoi ritrovare a tutte le età.
Ha dedicato Felicità alle persone che attraversano un momento di difficoltà e ai fragili… L’infelicità può durare a lungo, la felicità è un attimo. L’infelicità anche io la ho attraversata e so cosa significa, condividerla fa sentire meno soli. Si può uscirne, bisogna avere persone intorno che ti aiutino a combatterla. Di infelicità e depressione ce n’è tantissima post Covid, siamo un Paese fuori controllo. Spesso non si vede la realtà e quando arriva l’ombra dell’autoinganno le persone iniziano a stare male. Un problema a cui si guarda poco.
Compare anche un altro filone nel film, quello dell’immigrazione che appare nei tg ma anche nei pazienti dell’ospedale e nei discorsi razzisti del padre.
Ho messo tante cose, immigrazione compresa, perché fa parte delle nostre vite. Io volevo anche sottolineare i due mondi a confronto, quello dell’intellettuale di sinistra radical chic come il professore, e il mondo popolare del padre dove se sei diverso sei considerato strano. Ma volevo che i personaggi fossero ritratti con compassione. Max Tortora è un attore formidabile ed empatico: al suo personaggio perdoni tutto perché anche se è omofobo e razzista alla fine è un poveraccio, come tutti nel film.
Il suo film però si conclude con la speranza nell’amore fraterno che è salvifico.
La speranza deve esserci, certo. L’amore tra fratello e sorella lo conosco ed è importante, anche io ho un fratello e pure i miei figli sono fratello e sorella ed ho dedicato il mio film anche a loro. Io mio fratello lo sento ogni giorno e comunque so che c’è sempre. Il legame di sangue in questo caso funziona.
Questa sarà la prima di una serie di regie di Micaela Ramazzotti?
Mi devo impegnare – sorride –. Per ora voglio portare il film al pubblico nelle sale esseno presente per i saluti in sala. Poi uscirà il film Una madre di Stefano Chiantini e la serie Sky Un amore dove sarò protagonista accanto a Stefano Accorsi.
Come anche nella serie tv Un matrimonio di Pupi Avati, ormai è diventata un volto legato alla famiglia.
Mi fa piacere. Forse perché io sono io, non ho molti filtri. L’ho trovato tardi, ma la sincerità vince sempre. È bella inseguirla e mantenerla e non sentirsi migliori di chi, magari, non ha vinto premi e ce ne sono tanti di artisti bravissimi non premiati in questo Paese