Corriere della Sera, 20 settembre 2023
Cose nostre, un funesto album dei criminali
Spero che un giorno la Rai crei su RaiPlay una sorta di grande enciclopedia critica sulla criminalità organizzata e riservi alle puntate di «Cose Nostre» di Emilia Brandi (Rai1) un ruolo centrale.
Solo la passione indagatrice, la ricerca della verità, la ricostruzione dei tragici eventi che hanno macchiato la nostra storia, la distanza che separa chi ha operato nel nome della Giustizia da chi si è mosso contro, il funesto album dei criminali e dei collusi possono alimentare la speranza che un giorno l’indifferenza non permetta più alla malapianta di alimentarsi.
L’ultimo ritratto di «Cose nostre», «Le regole dello sbirro», era dedicato all’ispettore di polizia Giovanni Lizzio, ucciso dalla mafia a Catania il 27 luglio 1992. In quell’anno, la mafia aveva già ucciso il giudice Giovanni Falcone e, solo otto giorni prima di Lizzio, anche il magistrato Paolo Borsellino.
Le modalità del delitto e la ferocia dell’esecuzione non lasciavano alcun dubbio. La conferma definitiva arriva l’anno successivo, grazie alle rivelazioni del collaboratore di giustizia Claudio Severino Samperi che portarono all’arresto di 156 persone, tutte riconducibili al clan Santapaola. Tra loro, anche quelli che vennero considerati i mandanti dell’omicidio dell’ispettore Lizzio: Nitto Santapaola, Giuseppe Pulvirenti, Calogero Campanella e Aldo Ercolano.
Il movente sarebbe stato legato alla volontà di Cosa nostra catanese di punire Giovanni Lizzio per il suo «attivismo» di poliziotto e, in particolare, per quella denuncia nei confronti di Pulvirenti. Ma dietro il feroce omicidio ci sarebbe stata la volontà di allargare anche al territorio di Catania la strategia della tensione della mafia palermitana.
Molto toccante il racconto che di Lizzio fa Salvo Bella, all’epoca cronista di nera del quotidiano «La Sicilia». Il poliziotto e il giornalista si erano trovati per decenni in trincea in una città insanguinata da delitti e in mano alla malavita organizzata. L’aspetto più doloroso è che la morte dell’ispettore venne subito «mascariata», sporcata da quell’arte subdola di schizzare fango e delegittimare chi combatte la mafia.