il Fatto Quotidiano, 20 settembre 2023
I grilli nella testa di Emily Dickinson
A molti, i versi “guizzano dal cuscino”: perlopiù sono versacci. Ben pochi san produrre versetti e pochissimi confezionare poesie: Emily Dickinson, in questo, è maestra; anche sputasse per terra, crescerebbe un fiore del male e del bene, anche scarabocchiasse su un foglietto, sboccerebbe un poemetto profumato. Così accade con le sue Buste di poesia, appena edite dal Saggiatore e curate da Nadia Fusini: appunti, abbozzi di liriche, burle linguistiche, visioni, abbagli, frammenti di idee e persino correzioni, scritti ai bordi delle lettere, ai margini delle buste, agli angoli di fogli di carta già usati, inviati, letti, consumati. Dickinson li chiama i suoi “bollettini dall’immortalità, piccole entità, atomi”, mentre Fusini definisce questi “pizzini” come “gocce di pensiero, preghiere mute, ombre delle parole”.
La poetessa qui ci porta alle Soglie della Letteratura (© Genette), sull’orlo del precipizio creativo, un piede sopra l’abisso psichico: “La mente/ costruita per/ i carichi pesanti/ pianificata per/ occasioni spaventevoli/ Quanto spesso in mare aperto naufraga”. Emily è una “Santa Teresa di Amherst” (© Fusini), quella che piange per le preghiere esaudite, una Pizia del Massachusetts, nata nel 1830 e morta 56 anni dopo. Talento precoce, compone già a 17 anni e tra i venti e i trenta vive il suo periodo di fertilità numinosa: a quarant’anni però si fiacca, smette di raccogliere le sue poesie in ordinati fascicoli, ha un blocco mistico più che artistico. È allora, dal 1870 al 1885, un anno prima di morire, che Emily si mette a scribacchiare in modo disordinato, compulsivo, punk, lasciando le sue impronte e briciole sulle buste, sulle epistole, sui foglietti: ne esce un esperimento di arte contemporanea, un gioco dadaista, un’operetta situazionista, un’operazione ecologica anti-spreco e ante litteram, ispiratale dall’educazione puritana per cui la matita si consuma fino a sporcarsi le dita e non si sciupano fogli bianchi a caso, meglio riciclare i vecchi. Il libriccino è appunto una selezione di questi Envelope Poems, selezionati da 1.414 minute di poesie e 887 minute di lettere (la prima edizione americana, The Gorgeous Nothings, “I meravigliosi nulla”, è del 2012-2013); con corredo iconografico dei manoscritti originali riprodotti in versione ridotta.
Eremitica e volitiva, Dickinson è stata sempre refrattaria alla pubblicazione delle sue opere, così come odia farsi ritrarre: in vita, dà alle stampe meno di una decina di liriche su un corpus di 1.800 poesie (uscite postume grazie alla sorella-badante, che aveva un qualche fiuto letterario).
Grafomane e ciarliera solo per iscritto, l’artista intrattiene una fitta corrispondenza con gli amici, con alcuni critici – “È troppo occupato per dirmi se i miei versi respirano?”, chiedeva in giovanissima età – e soprattutto con l’adorata cognata Susan Gilbert, agognata amante, musa e maestra al pari di quell’altro suo idolo: William Shakespeare. Parla solo coi grandi lei: i poeti e i cani. Per il resto, schifa l’umanità, ritirandosi anzitempo a vivere nella sua cameretta, al più quattro passi in giardino: “La casa più bella che abbia/ mai visto/ fu costruita in un’ora/ da due tipi che conoscevo bene/ un ragno e un fiore –/ una canonica di pizzi e merletti/ e luce – sole –”.
Dickinson ha i grilli per la testa, non solo nell’orto, una sensibilità esasperata “così intima alla pazzia”, impigliata tra fantasticherie, ragnatele e ranuncoli. Salvo poi appuntare su un pezzetto di cartoncino questi versi struggenti: “Ma non tutti i fatti/ sono sogni/ non appena li mettiamo/ dietro le spalle”. Oltretutto soffre – pare – del mal caduco, l’epilessia, che condivide con Dio e Dostoevskij: “Misconosciuta la ferita/ crebbe tanto/ che ci sprofondò tutta la mia vita”.
La più asociale e casalinga delle voci liriche contemporanee è poi diventata la più social e mondana delle autrici, citata e saccheggiata ovunque, dai cioccolatini al cinema: “Buongiorno notte” (Marco Bellocchio); “Buongiorno, mezzanotte” (Jean Rhys); “L’acqua è insegnata dalla sete” (Vasco Brondi)… persino il suo mozzicone di matita sembra ispirare il lapis dell’Ikea.
Chiude la raccolta, infilata nella terza di copertina, una busta rossa pronta per la lettera scarlatta del lettore: una busta vuota, come vuoti sono gli spazi di carta che Dickinson tenta di riempire con schegge di senso, come vuoti sono i cuori di chi se ne va; poi, all’improvviso, il miracolo: “La gioia stolida di respirare il vuoto senza di te”. Vuoti, assenze, buche in cui Emily inciampa e si rialza zoppicando e poetando: Emily, una ragazza del Massachusetts dagli occhi scuri, dello stesso colore “dello sharry che l’ospite lascia in fondo al bicchiere”.