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 2023  settembre 20 Mercoledì calendario

C’era una volta l’impero britannico

Esattamente cent’anni fa, il 29 settembre 1923, l’Impero britannico raggiunse le sue massime dimensioni, estendendosi sul 24 per cento delle terre emerse e rappresentando il 23 per cento della popolazione mondiale. Quel giorno, un quarto del pianeta apparteneva al Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord, l’isola che aveva cominciato quattro secoli prima a conquistare colonie e, fra l’Ottocento e l’inizio del Novecento, si impose come la maggiore potenza globale. Geograficamente, economicamente, militarmente, è stato l’impero più grande della storia. «Quando ero giovane io, era inconcepibile l’idea che l’Impero britannico potesse scomparire», ricordava la premio Nobel per la letteratura Doris Lessing, «ma poi è scomparso, come tutti gli imperi».
In realtà, pur essendosi notevolmente rimpicciolito, «l’impero su cui non tramonta mai il sole» non è del tutto scomparso. Sopravvive, come nota l’Economist in occasione del centenario del suo apogeo, nei quattordici pur minuscoli “territori d’oltremare” che fanno tuttora parte del Regno Unito, fra cui le Isole Vergini, Bermuda, le Cayman dei “paradisi fiscali”, l’arcipelago delle Falkland per riconquistare il quale gli inglesi hanno combattuto contro l’Argentina, la rocca di Gibilterra in fondo alla Spagna, Sant’Elena dove morì in esilio Napoleone e Pitcairn dove si rifugiarono gli ammutinati del Bounty. Resiste formalmente nei quindici Paesi che, pur essendo da tempo indipendenti, avevano la regina Elisabetta e ora hanno re Carlo come capo di Stato, un retaggio dell’Impero privo di qualsiasi potere ma lo stesso obsoleto: tanto che alcuni di essi, tra i quali Australia, Nuova Zelanda, Canada e Giamaica, adesso discutono di rompere l’ultimo legame con Londra e diventare repubbliche.

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Affiora nel Commonwealth, l’associazione che riunisce la maggioranza delle ex colonie britanniche (ma Usa e Irlanda non ne hanno mai fatto parte), riservando il ruolo di leader al monarca di turno a Buckingham Palace: una sessantina di nazioni, fra cui India, Pakistan, Bangladesh, Kenya, Tanzania, Nigeria, che tutte insieme contano due miliardi e mezzo di persone, un terzo dell’umanità. Si affaccia nelle corti di giustizia, dove nel 2019 gli ex abitanti delle isole Chagos hanno fatto causa al Regno Unito per la deportazione di massa sofferta allo scopo di affittare la loro patria a una base di bombardieri americani. E all’orizzonte si intravedono altri processi al British Empire: numerose isole dei Caraibi reclamano scuse e indennizzo come vittime dello schiavismo.
Sul giudizio al di fuori dei tribunali, il verdetto che spetta alla storia, si interrogano due libri pubblicati di recente in Inghilterra. One fine day, del saggista Matthew Parker, è una rivisitazione dell’Impero attraverso i suoi amministratori meno noti, come Hugh Clifford, un governatore della Malesia che imparò la lingua locale, si innamorò della gente e della cultura, ma ne descriveva gli abitanti come una specie inferiore. Imperial Island, di Charlotte Lydia Riley, docente alla Southampton University, parte dal contributo a lungo trascurato delle “truppe imperiali” alla Seconda guerra mondiale per concentrarsi sull’eredità non esente da macchie che l’Impero ha lasciato alle relazioni razziali nell’odierna Gran Bretagna.
Nell’insieme, è un responso contraddittorio. Per alcuni il British Empire fu un diffusore di civiltà: «Diede libertà e stato di diritto a Paesi che altrimenti non li avrebbero conosciuti», sosteneva Margaret Thatcher. Per altri, fu un bieco oppressore di popoli: «Ho rifiutato l’onorificenza dell’Ordine dell’Impero Britannico», afferma il regista Ken Loach, «perché rappresenta tutto ciò che trovo riprovevole, a cominciare dal nome, un monumento allo sfruttamento». È vero che la Gran Bretagna è stata la culla del “rule of law” e della moderna democrazia, il rifugio di esuli perseguitati, da Mazzini a Lenin. Ma i principi di libertà e democrazia espressi a Londra venivano smentiti nelle colonie. I colonizzatori pensavano di illuminare la strada del progresso in ogni angolo della Terra, introducendo legalità, sanità, istruzione, ma portavano con sé lavoro forzato, massacri e pregiudizi razziali.
Un paradosso è che oggi a Londra governano due figli di immigrati dalle colonie britanniche, il premier Rishi Sunak, di origine indiana, e il sindaco Sadiq Khan, di origine pakistana: la riprova che immigrazione e integrazione, nel lungo termine, sono la migliore ricetta per il rinnovamento sociale. Anche a tavola, dove il pollo “tikka masala” ha soppiantato il “fish and chips” come piatto preferito degli inglesi. Un altro paradosso è la “relazione speciale” vantata dal Regno Unito con gli Stati Uniti, che furono la prima colonia a ribellarsi al dominio della Corona britannica. «Se il nostro impero durasse altri mille anni», affermò Winston Churchill in uno dei suoi più famosi discorsi, «si dovrà poter dire che la resistenza al nazismo è stata la nostra ora migliore». Ma fu anche l’ora dell’avvio del declino britannico, in cui la superpotenza globale dell’Ottocento passava il testimone alla superpotenza globale del Novecento: l’America. Un terzo paradosso è che oggi quel che resta dell’Impero britannico conta di meno negli affari mondiali a causa della Brexit: decisione in parte prodotta dalla nostalgia che molti britannici, in particolare i più anziani, provano per il British Empire. Non soltanto loro, del resto, hanno patito il complesso dell’Impero, l’illusione dei piccoli di tornare a sentirsi grandi: un disturbo di cui abbiamo sofferto anche noi italiani, durante il fascismo, accecati da un passato ancora più lontano.