Corriere della Sera, 19 settembre 2023
Il momento magico dell’autore postumo
Impressiona l’ombra della morte sulle classifiche dei libri. Non parliamo di Michela Murgia, la cui tragedia umana ha moltiplicato l’interesse dei lettori sul suo primo vero romanzo, Accabadora, e sul suo libro più recente, Tre ciotole, che affronta il tema della malattia e l’imminenza della fine. Non è che Murgia fosse passata inosservata in vita, tutt’altro, ma la morte ha paradossalmente aumentato il suo potere di attrazione. Quest’anno il Premio Strega è andato, postumo, proiettandolo in cima ai libri venduti, a Come d’aria di Ada D’Adamo, cronistoria di due malattie, quella dell’autrice (nel frattempo scomparsa) e quella di sua figlia. Era da tempo che Milan Kundera non compariva tra i best seller ed ecco che la morte, avvenuta l’11 luglio scorso, l’ha fatto levitare tra i best seller in maniera inattesa, e non solo con L’insostenibile leggerezza dell’essere. È come se la morte aggiungesse alla voce dello scrittore un alone e un fascino che la vita non aveva o aveva solo parzialmente. Ha scritto Giuseppe Pontiggia che l’ascesa dello scrittore tocca il suo culmine «con la decrepitezza e la morte». E aggiungeva: «Lo scrittore morto è immortale». È vero solo in parte, ovviamente, perché restano più numerosi i casi di autori ai quali non basta morire per assicurarsi il successo e tanto meno la memoria eterna. A volte, piuttosto, basta morire per condannarsi all’oblio, anche se ci sono sempre i centenari che possono favorire un minimo di risurrezione temporanea. Esistono poi altre varianti tra vita e morte: per esempio, quelli che il critico Vittorio Spinazzola definì «libri postumi di scrittori viventi». Ogni libro di Elena Ferrante si può considerare postumo anche se vivente (si suppone) è l’autrice o l’autore. In effetti, nel mondo dell’iperpresenzialismo scomparire prima di morire può essere una buona soluzione per garantirsi (e gustarsi) l’immortalità in vita, vedi il caso di Salinger, il più famoso degli scrittori che riuscirono a rimanere invisibili in vita. Chi punta sull’iper-vita in vita, cioè sulla presenza frenetica in tv, nei festival, nei social e ovunque, dovrebbe valutare se piuttosto non valga la pena dileguarsi pian piano. Non suicidarsi, come fece Guido Morselli (inedito da vivente e glorificato post mortem), ma almeno darsi per defunto. Sperare che qualcuno ci caschi e godersi beatamente il proprio trionfo.