Corriere della Sera, 19 settembre 2023
Intervista a Vito Alfieri Fontana
Si fa presto a dire mine antiuomo. Quali? Ve ne sono di due tipi: a pressione e a frammentazione. Le prime esplodono se vengono calpestate e dilaniano il piede, la gamba, i genitali; le seconde si attivano con un filo d’innesco e uccidono all’istante. Per lo sventurato che vi inciampa meglio le seconde, verrebbe da dire, se non fossero imbottite di schegge metalliche che feriscono chiunque si trovi nei 10.000 metri quadrati di terreno circostante. Vito Alfieri Fontana, ex imprenditore di Bari, ha prodotto 2,5 milioni di mine. Cominciò quando aveva 26 anni. Da un trentennio ha smesso. Ha riscattato la sua prima vita da fabbricante di morte con una seconda vita da operatore umanitario di Intersos nei Balcani. È andato a toglierne 2.000 da Kosovo, Serbia e Bosnia, ha sminato Sarajevo. Lo 0,08 per cento. «Sembra un nulla, invece sono tantissime, per la fatica che ci ho messo con 20 persone», si consola, mentre sta per uscire (venerdì prossimo) il libro Ero l’uomo della guerra, scritto per Laterza con Antonio Sanfrancesco.
Fontana era titolare della Tecnovar, che ha chiuso nel 1997 per uno stato di crisi, quella di coscienza, non contemplato in Confindustria. È l’unico al mondo ad aver svelato i meccanismi della più criminale fra le produzioni belliche. Senza di lui non sarebbe mai decollata la Campagna internazionale per la messa al bando delle mine antiuomo, premiata quello stesso anno con il Nobel per la pace. Senza di lui il Parlamento italiano non avrebbe mai varato la legge che ha vietato per sempre l’infame commercio.
Più pentito lei di Tommaso Buscetta.
«È ciò che mi disse Teresa Sarti, compianta consorte di Gino Strada: “Buscetta le fa un baffo”. Il chirurgo di Emergency mi aveva telefonato: “Si rende conto di quello che combinano le sue mine?”. Farfugliai: lo so, dottore, un grandissimo macello. “Finalmente qualcuno che mi chiama dottore. Faccia subito qualcosa!”, mi intimò severo. Vent’anni dopo lo incontrai a Catania. Era ancora preoccupato di essere stato troppo aggressivo».
A che servono le mine antiuomo?
«Ad atterrire, mutilare, uccidere. Mettono in sicurezza un’area: in Afghanistan le basi americane erano circondate da campi minati che gli alleati avrebbero dovuto denunciare. Rendono inabitabile un territorio per molti anni dopo una guerra: gli abitanti non possono tornare a casa, coltivare la terra, pascolare il bestiame. I bimbi sono le prime vittime».
Chi le ha inventate?
«L’uomo. Quando i mongoli tentarono nel 1274 d’invadere il Giappone, ad attenderli sulle spiagge trovarono ordigni rudimentali riempiti con polvere nera. Le mine moderne apparvero per la prima volta nel 1861, durante la guerra di secessione americana. Da noi dilagarono nella Grande Guerra: impedivano il taglio del filo spinato steso attorno alle trincee».
Le sue quanto esplosivo contenevano?
«Fino a 350 grammi di T4 o di tritolo».
Costo?
«La TS-50, la più sofisticata che ho progettato, 5.000 lire».
Niente.
«Era la più richiesta, perché esplodeva anche a distanza di decenni. Nel 1988 il governo italiano mi chiese di studiare delle mine “intelligenti”, anzi “etiche”».
Difettava di senso del ridicolo.
«Avrebbero dovuto cessare di attivarsi entro 6-12 mesi. Ma costavano 100.000 lire l’una. Non le ho mai prodotte, perché nel 1990 il progetto fu cancellato».
A quali Paesi vendeva i suoi ordigni?
«Soprattutto all’Egitto, che attraverso il ministero della Produzione militare operava in vari teatri di guerra. Ho incontrato un ex ufficiale che era stato un fedelissimo di Saddam Hussein. All’epoca del conflitto tra Iraq e Iran comandava il Genio militare. Dopo l’embargo del 1984, servivano triangolazioni per far arrivare le mine nel Golfo. Mi raccontò che il dittatore gli aveva urlato: “Non me ne frega niente da dove le prendi, l’importante è che ci sia il profumo italiano”. Ma la Tecnovar commerciava anche con Stati Uniti, Canada, Corea del Sud, Emirati Arabi Uniti, Francia, Thailandia. In Bosnia fu trovata una nostra campionatura che avevamo fornito all’esercito tedesco. Non ho mai capito come fosse finita lì».
Avveniva tutto alla luce del sole?
«Certo! Le nostre esportazioni dovevano essere autorizzate dalla presidenza del Consiglio e da quattro ministeri: Difesa, Esteri, Interno, Commercio estero».
Oggi dove si comprano le mine?
«Cina, Russia, India, Iran, Corea del Nord, Corea del Sud, Pakistan, Myanmar, Cuba, Singapore e Vietnam continuano a produrle in barba alla messa al bando, cui non hanno mai aderito neppure gli Usa: sostengono che servono per tenere in sicurezza il confine tra le due Coree».
La Tecnovar l’aveva creata lei?
«No, l’avevo ereditata da mio padre Ludovico, ingegnere come me e come il mio nonno materno Vito. La fondò nel 1958. All’inizio si chiamava Fabem, acronimo di Fabbrica articoli bacheliti e metalli. Costruiva basi e telai per i contatori dell’Enel e valvolame per gli acquedotti».
Perché fu riconvertita alle munizioni?
Ho venduto 2,5 milioni di ordigni
e progettato la TS-50: costava
5.000 lire, durava per anni. Finché
Gino Strada e Madre Teresa...
«Non che papà fosse un guerrafondaio. Proveniva da una famiglia liberale e antifascista. Rilevò il 20 per cento della Gazzetta del Mezzogiorno per compiacere Aldo Moro, che glielo chiese attraverso un suo fedelissimo, l’ex ministro dc Nicola Vernola, cugino di mia madre».
E dunque perché si sporcò le mani?
«Litigò con zio Giovanni, suo socio. La Fabem fu posta in liquidazione. Mio padre si rivolse alla Valsella di Montichiari, leader nelle mine antiuomo, della quale era consulente. Ma gli servivano capitali per la nuova società. Si rivolse a un potente e cinico uomo d’affari, il Vecchio. Non mi va di farne il nome, è morto. Viveva attaccato alla bombola dell’ossigeno tra Milano e una villa a picco sul mare in Liguria. Così nel 1971 nacque la Valsella Sud srl, poi divenuta Tecnovar. Arrivammo ad avere 350 dipendenti e a fatturare 40 miliardi di lire l’anno. Ma la prima commessa dal ministero della Difesa risale a 60 anni fa. Fu per la mina Aups, cioè “antiuomo persona e sabotaggio”».
Poi sopraggiunse la crisi di coscienza.
«Mio figlio Ludovico a 8 anni vide i cataloghi della Tecnovar sul sedile posteriore dell’auto. Mi chiese che cosa fossero quegli aggeggi. Balbettai: mine, tutti quelli che producono armi le fanno. “Allora tu sei un assassino”, concluse. Ancora più terribile fu l’anno dopo, di ritorno da una gita scolastica. Forse aveva parlato con gli amichetti. Mi assalì come una furia: “Pensavo che tu fossi il migliore papà del mondo. Invece non lo sei”. Ha idea di che cosa prova un genitore a sentirsi dire una frase del genere?».
Ha patito anche la censura sociale.
«Tutte le mattine il magazziniere entrava nel mio ufficio: “Ingegnere, è arrivato questo pacco senza affrancatura e senza mittente”. Aprivo: dentro c’era una sola scarpa. E sempre lo stesso biglietto: “Il francobollo mettilo tu, bastardo!”».
Nicoletta Dentico, ex vicepresidente di Mani tese, mi ha detto: «S’è convertito».
«Lei mi ha convertito, Dio la benedica. Ogni settimana telefonava per insultarmi. Alla fine mi trascinò alla Conferenza di Oslo del 1997. E lì una sera si sedette davanti a me un ex ufficiale dell’esercito britannico, meno di 30 anni, bellissimo. Aveva perso un braccio e parte di una gamba durante uno sminamento in Cambogia. “Proprio lei dovevo incontrare?”, mi apostrofò. Che pena, che pena!».
Il vescovo Tonino Bello la strapazzò.
«Morì prima di poterlo fare de visu. Un mese dopo il funerale provvidero 400 persone in un cinema di Bisceglie. Si alzò un ragazzo: “Ma lei cosa sogna di notte? Che scoppi un’altra guerra per vendere tante mine? Che razza di vita è la sua?”. Siamo rimasti in contatto. Si chiama Gianpietro Lo Sapio, abita a Barletta».
Suo padre si è pentito?
«No, morì nel 2006, convinto che avessi dissipato il patrimonio di famiglia. La mamma la pensava come lui, ahimè. Solo mia moglie mi ha capito, insieme con due operai della Tecnovar, testimoni di Geova. Erano semplici attrezzisti. Appena compresero a che cosa servivano i loro stampi, diedero le dimissioni».
Resipiscenze a livello internazionale?
«Nel 1984 vennero a visitare la Tecnovar due svedesi di una commissione delle Nazioni Unite. Erano preoccupati per il fatto che le nostre mine marine provocavano danni ingenti alla fauna ittica».
Di mine antiuomo quante ne restano?
«Nessuno lo sa. Solo sul confine Iran-Iraq ce ne saranno 40 milioni. Si calcola che nel mondo abbiano fatto non meno di 500.000 vittime, tra morti e mutilati».
Come ha espiato le sue colpe?
«Con tre stent al cuore. E ho perso l’occhio destro. Dovevo operarmi per il distacco della retina, ma non volevo lasciare la Bosnia. A Sarajevo la direttrice della cooperazione italiana mi chiese: “Quanto guadagna?”. Replicai: 14.500 euro. Si stupì: “Non le sembra eccessivo, ingegnere?”. Intendevo all’anno, non al mese. Nonostante alla Tecnovar viaggiassi sui 10.000 euro mensili, mi ero autoridotto lo stipendio a 1.200, come i comuni sminatori. Con i soldi risparmiati riuscimmo a bonificare 3 ettari di terreno in più».
Ha avuto bisogno di antidepressivi?
«No, sono bastati i Balcani. Mi rimprovero solo di non averli ripuliti prima».
Riesce a dormire?
«Poco e male. Non ricordo mai i sogni, tranne uno. In Egitto mi apparve di notte Madre Teresa di Calcutta. Mi scrutava senza dir nulla e scuoteva la testa. Mi risvegliai turbato. L’indomani me la trovai davanti all’aeroporto di Fiumicino».
Come definirebbe la sua odissea?
«Con il carme di Catullo: “Multas per gentes et multa per aequora vectus advenio has miseras, frater, ad inferas”. Per molte genti e molti mari condotto, giungo a queste misere spoglie, fratello».