Corriere della Sera, 19 settembre 2023
Come funzionava la missione Sofia
BRUXELLES Si fa presto a dire missione navale per contrastare i trafficanti di esseri umani e bloccare così i flussi di migranti sulle coste italiane. La chiede la premier Giorgia Meloni. E la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen, nel suo piano in dieci punti per Lampedusa che sarà affrontato già la prossima settimana al consiglio Affari interni, prevede al punto 5 di «intensificare la sorveglianza delle frontiere in mare e la sorveglianza aerea, anche attraverso Frontex, ed esplorare le opzioni per espandere le missioni navali nel Mediterraneo». Ci sono però complessità giuridiche non facili da risolvere.
La missione navale intesa come blocco, che piace a Meloni, difficilmente troverà l’unanimità in Consiglio e la politica estera e di sicurezza richiede l’unanimità. Restano i problemi giuridici degli accordi con i Paesi terzi per entrare nelle loro acque territoriali così come per i rimpatri. E poi c’è il nodo da sciogliere del porto sicuro per i salvataggi in mare, che sono obbligatori in base al diritto internazionale. La Commissione e il Servizio esterno stanno studiando le varie opzioni per arrivare al risultato di un maggiore e migliore controllo dei flussi migratori irregolari. Il rafforzamento di Frontex è più semplice mentre la missione navale, che è decisa dal Consiglio su proposta dell’Alto rappresentante, è più complessa perché presuppone un maggiore coordinamento militare e ci deve essere l’accordo con i Paesi costieri terzi (in questo caso con la Tunisia).
Viene subito in mente l’operazione Sophia, la prima missione militare di sicurezza marittima europea nel Mediterraneo centrale lanciata nel 2015 e terminata a marzo 2019, quando ministro dell’Interno era Matteo Salvini e alla Farnesina c’era Enzo Moavero Milanesi. Ursula von der Leyen era ministra della Difesa a Berlino. Non fu rinnovata anche per l’opposizione dell’Italia alle norme Ue che obbligano i richiedenti asilo a fare domanda nel Paese di primo approdo e Sophia prevedeva lo sbarco in Italia dei migranti salvati in mare, cosa che Roma chiedeva di cambiare. Qualche mese dopo, nell’agosto di quell’anno, Angela Merkel rilanciò l’idea di un’altra missione Sophia per i salvataggi in mare con navi di Stato e il suo portavoce, Steffen Seibert, spiegò che l’operazione Sophia era stata fermata «per il fatto che in Europa semplicemente non c’era e non c’è alcuna unità» sulla questione della ripartizione dei migranti salvati in mare. Le cose da allora non sembrano cambiate molto. Per alcuni Paesi, Italia inclusa, Sophia era un «pull factor» per l’immigrazione illegale. Per altri Paesi, invece, salvava vite.
L’operazione fu decisa dopo il tragico naufragio, a nord della Libia, di un peschereccio con oltre 800 migranti avvenuto il 18 aprile 2015. L’operazione Sophia, a guida italiana, aveva lo scopo principale di contrastare il traffico illecito di esseri umani. La missione prevedeva quattro fasi ma solo le prime due sono state attuate: la raccolta di informazioni sul modus operandi dei trafficanti di esseri umani e in alto mare il fermo, la perquisizione, il sequestro e il dirottamento delle loro imbarcazioni nel rispetto del diritto internazionale, che implica anche il salvataggio di chi è in difficoltà. La terza fase, mai attivata, espandeva ulteriormente l’attività di contrasto nelle acque libiche e sulla terra ferma per cui sarebbe servita una risoluzione Onu e il consenso dello Stato costiero. La quarta il completamento dell’operazione. Contemplava anche compiti di supporto come la formazione della guardia costiera e della marina libiche e il contrasto al traffico di armi.