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 2023  settembre 19 Martedì calendario

Sms, email, chat, social network. Una Babele

Quando nella seconda metà del secolo scorso letteratura e cinema hanno parlato di “incomunicabilità” deve essere stato per una specie di paradossale febbre di crescita. La diffusione dell’istruzione (dall’alfabetismo sino all’erudizione) era ormai capillare, i media erano tecnologicamente avanzati e insomma in Italia non si era mai “comunicato” tanto. In quest’altro secolo gli strumenti di cui disponiamo per comunicare sono ulteriormente aumentati, e in quantità smisurata e inattesa. Eppure l’impressione è quella di non capirci molto l’uno con l’altro. Cellulari, poi smartphone; sms, email, chat, social network. Si pensava che potesse essere una Pentecoste, ed è stata una Babele. I nuovi media hanno promosso anche nuovi linguaggi mutuamente esclusivi e solo pochi poliglotti si rivelano capaci di passare dall’uno all’altro. Questo capita soprattutto, ma non esclusivamente, tra le generazioni.
Dovremmo usare cautela, nei confronti del discorso generazionale. Già il fatto che le generazioni non si intendano più scandite lungo i classici quarti di secolo insospettisce. Nella fetta di mondo in cui viviamo, a distinguere le generazioni recenti non sono più tanto gli eventi storici (i “Ragazzi del ‘99”, i “Sessantottini”). Quel che conta oggi è quanti anni avevi quando si è diffuso TikTok, quando sono arrivati i TeleTubbies, quando è uscito Harry Potter, quando sono stati messi in vendita l’iPhone o l’iPad; le faglie tra le generazioni vengono aperte dalle tecnologie, dai prodotti, dai generi di consumo.
Siamo cambiati noi o sono cambiate le nostre relazioni? In quanto a noi, cioè ai soggetti, gli psicologi ci spiegano che non c’è più Edipo: ora c’è Narciso. Ogni singola generazione ha particolari ragioni di lamentarsi. Quella nata tra gli anni Cinquanta e i Settanta ha avuto genitori di tipo edipico ma non ha potuto riproporre il modello poiché ha generato figli di tipo narcisistico. Non hanno più il problema di difendersi dall’Edipo che vuol far fuori Laio, ma hanno quello di proteggere Narciso da sé stesso. Non mi addentro più di tanto, non è materia mia. Per la mia parte rimarco soltanto che mentre Edipo è un abile solutore di enigmi e se la cava a comprendere i messaggi ambigui, Narciso non parla, non ascolta, per quanto Eco gli ripeta sempre le stesse cose (e quanto amorosamente). A scuola e all’università diventa un grattacapo poiché qualsiasi materia di studio ha un suo proprio linguaggio e insegnarla significa insegnare a “parlarla”. Questo implica che almeno in classe non si possa più di tanto venire incontro allo studente, poiché a mettersi del tutto sul suo terreno non gli si insegnerebbe nulla. Ciò “che va incontro” sarebbe, in latino, l’ ob-vium, cioè l’ovvio. Uno studente deve rassegnarsi a imparare una lingua nuova, a sentirsi inizialmente smarrito per poi godere della gratificazione della conquista.
Sia chiaro. Questo riguarda il discorso di docenza, che è solo uno dei tanti possibili: genitori, scrittori, giornalisti, influencer, sacerdoti, teatranti useranno modalità diverse da queste e avranno problemi diversi da questi. Persino un professore può uscire dal rapporto di docenza e stabilire contatti su altri piani: i colloqui individuali, i capannelli prima e dopo le lezioni, eventi e occasioni extra-curricolari. Il punto non è neppure lì. Il punto è che ogni discorso su nuovi linguaggi e linguaggi futuri (e vanno distinti attentamente gli uni dagli altri) deve considerare che per comunicare con qualcuno ancor prima del linguaggio abbiamo bisogno di un contatto.
È meno difficile intendersi con una persona con cui non si ha alcuna lingua comune che con un italiano che però non può o non vuole né ascoltare né parlare. Sia anche chiaro che non è soltanto con “i giovani” – cioè tra una generazione e l’altra – che abbiamo problemi a stabilire contatti: questi sono ormai difficili e precari anche tra condizioni diverse. La “bolla” è l’immagine della compartimentazione, per la quale ognuno viene a contatto (insisto a usare questa parola) soltanto con persone simili.
Con i mezzi di comunicazione possiamo stabilire contatti con chiunque al mondo, anche con“l’aborigeno” della famosa battuta di Corrado Guzzanti che sintetizzo ed edulcoro: «Abboriggeno, ma io e te che cosa se dovemo di’?». Rido, però vorrei anche rovesciare la battuta. Che cosa dovrei mai comunicare a qualcuno che è come me? Quando non dobbiamo neanche venirci incontro poiché siamo tutti e due già lì, non potremo dirci che qualcosa di ovvio. Comunicheremo il mero fatto di appartenere alla medesima bolla, di essere a contatto. Cosa che non è comunicazione, ma compiacimento.
Questo cambiamento nei soggetti deve essere parte causa e parte effetto di un cambiamento che si registra sul piano delle relazioni. Prima del Duemila quante volte avevate sentito parlare di “piattaforma”? A parte gli esperti petroliferi, gli appassionati di tuffi olimpici, i sindacalisti, i politici e i cultori di Elio e le Storie tese, la piattaforma riguardava pochi. Oggi è tutta una piattaforma. Quello che succede è che dove sono intervenute le piattaforme, per esempio nella comunicazione giornalistica (in quella libraria ci stiamo arrivando, e per la via peggiore), la centralità non è stata più data al messaggio – il che spiega anche le tremende inaccuratezze di quasi ogni editing. Non è il testo che conta. Quel che importa sono i contatti, e capirete perché sinora ho insistito tanto sulla parola. I contatti contano poiché si contano. Il fatto è quasi automatico: quando la comunicazione trova una “metrica” e la relazione comunicativa viene enumerata (in tv successe con l’Auditel), il testo diventa funzione del contatto stesso.
Quindi, che fare? Quali linguaggi futuri dovranno sostituire i linguaggi che oggi sono nuovi, e sembrano incapaci di raggiungere qualcuno che è fuori dalla nostra bolla? La nuova incomunicabilità ci richiede capacità di gioco, di consapevolezza e di traduzione